di Mimmo Famularo – Imprenditore “colluso” con i clan e da processare per il pool di magistrati della Direzione distrettuale antimafia guidata da Nicola Gratteri. Vittima di estorsione per il Tribunale del Riesame di Catanzaro che lo scorso mese di settembre ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari emessa dal gip distrettuale nell’ambito dell’inchiesta “Imponimento”. E’ la controversa storia giudiziaria di Vincenzo Renda, 50 anni, imprenditore e avvocato di Vibo Valentia, già coinvolto nella maxi-operazione “Rinascita Scott” dove è finito a processo con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per aver agevolato la cosca Mancuso. Renda rischia adesso il rinvio a giudizio nel procedimento penale scaturito dall’operazione “Imponimento” dove deve difendersi dall’accusa di smaltimento illecito di rifiuti aggravato dal metodo mafioso. In questo caso – secondo l’accusa – avrebbe “flirtato” con il boss di Filadelfia Rocco Anello, figura chiave dell’inchiesta condotta dalla Dda di Catanzaro, oggi al vaglio del gup distrettuale nell’udienza preliminare in corso di svolgimento nell’aula bunker di Lamezia Terme.
Il Riesame smonta le accuse della Dda di Catanzaro
Il Riesame smonta le accuse della Dda di Catanzaro
Nelle motivazioni messe nero su bianco in nove pagine dal Tribunale del Riesame (presidente Giuseppe Valea, a latere Michele Cappai e Simona Manna) che aveva accolto il ricorso dell’avvocato Diego Brancia, i giudici spiegano l’insussistenza delle accuse richiamando una conversazione captata dagli stessi investigatori e riproposta dalla difesa dalla quale emerge che il boss Rocco Anello avrebbe imposto a Vincenzo Renda le modalità di smaltimento dei rifiuti da togliere dal cantiere dove si stava realizzando il villaggio-residence Galia a Pizzo e la scelta dell’impresa da utilizzare per il trasporto del materiale in altro luogo. Una vicenda che – a parere del Riesame – deve essere valutata “alla luce della complessiva situazione inerente il rapporto con Anello Rocco, rispetto al quale il Renda si trovava in piena e completa soggezione”. Il Rocco Anello citato dal Riesame non è altro che il boss di Filadelfia, ritenuto al vertice della consorteria mafiosa gravitante sul territorio compreso tra Filadelfia e Pizzo. L’imprenditore si sarebbe trovato quindi in una situazione di “assoggettamento e “completa sudditanza” obbligato a sottostare alle scelte operate dal boss e all’individuazione delle impresa a cui affidare i lavori anche “riguardo all’attività di smaltimento dei rifiuti del relativo cantiere”. Un condotta definiti “intimidatoria esercitata da Rocco Anello e dalla sua consorteria nei confronti di Vincenzo Renda.
Dall’arresto alla richiesta di rinvio a giudizio
Per meglio capire la vicenda bisogna però fare un passo indietro. L’imprenditore e avvocato vibonese finisce nell’inchiesta “Imponimento” condotta sul campo dalla Guardia di finanza con l’accusa di aver agevolato la cosca Anello nella realizzazione del resort Galia di Pizzo Calabro. Secondo il gip di Catanzaro, che il 12 agosto del 2020 firma l’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari, avrebbe “smaltito illecitamente i rifiuti prodotti dalle attività di demolizione e sbancamento dell’area del cantiere” affidando i lavori alle imprese scelte dagli Anello e “incrementando la capacità economica del sodalizio”. Nel ricorso presentato dall’avvocato Brancia si sosteneva la carenza di gravità indiziaria nonché l’insussistenza delle esigenze cautelari. Nel corso dell’udienza davanti al Riesame, la difesa di Renda presentava anche un dossier con il quale veniva smontato punto per punto l’impianto accusatorio costruito dalla Dda. In particolare, l’imprenditore sarebbe vittima di estorsione e concorrenza illecita in relazione ai lavori di costruzione del villaggio-residence. Gli Anello avrebbero infatti puntato “all’imposizione esterna nella scelta delle ditte destinate a seguire i lavori e i servizi occorrenti, alla imposizione dei prezzi e delle condizioni di lavoro, in tal modo costringendo il Renda, quale rappresentante di fatto della Genco Carmela & Figli s.r.l. ad avvalersi per i lavori di realizzazione del villaggio-residence, delle imprese da loro imposte, coartando in tal modo in maniera assoluta la libertà di scelta imprenditoriale della parte offesa”. Per il gip di Catanzaro, però, Renda “era assolutamente consapevole dell’illecito smaltimento ed ha partecipato a tutte le discussioni nelle quali l’attività di smaltimento è stata programmata”. Gli inquirenti citano l’incontro del 21 luglio 2017 nel corso del quale l’imprenditore si sarebbe accordato con Anello “affinché quest’ultimo rimuovesse ogni cosa dall’area del cantiere, comprese le strutture coperte da eternit, per poi eliminarle insieme al resto dei rifiuti”. Una conversazione ampia e articolata che i giudici del Riesame interpretano diversamente e in modo più ampio evidenziando che “il Renda era rimasto all’oscuro delle modalità attuate da Anello Rocco per lo smaltimento dei rifiuti”. Non sarebbe poi emerso con elevata certezza che lo smaltimento, ad opera dell’impresa di riferimento di Rocco Anello, “abbia apportato un effettivo vantaggio economico, attraverso il risparmio della spesa necessaria per lo smaltimento in modo corretto”. Come dire: al danno si è aggiunta anche la beffa e l’imprenditore-avvocato di Vibo Valentia rischia adesso di passare da presunta vittima di un’estorsione a imputato in un altro processo di ‘ndrangheta.