Autonomia differenziata, Puccio (PD): lascia perplessi

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Questi sono giorni di particolare importanza per la Calabria, le regioni meridionali e l’Italia intera. Sono giorni in cui ha preso forma lo schema di intesa tra il Governo e le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna in tema di autonomia differenziata.

Un’intesa che, come hanno sottolineato decine di eminenti costituzionalisti, comporterà una modifica sostanziale anche dell’attuale forma dello Stato e che lascia perplessi sotto diversi aspetti.

Un’intesa che, come hanno sottolineato decine di eminenti costituzionalisti, comporterà una modifica sostanziale anche dell’attuale forma dello Stato e che lascia perplessi sotto diversi aspetti.

Bene, quindi, ha fatto il presidente Mario Oliverio a scrivere ai suoi omologhi delle regioni meridionali per proporre un’occasione di incontro che consenta la predisposizione di un documento comune su tale delicato tema.

Come dicevamo diverse sono gli aspetti su cui sono state avanzate critiche e preoccupazioni inerenti lo schema d’intesa raggiunto. In primo luogo dal punto di vista formale e delle procedure adottate.

Oltre alle perplessità di costituzionalisti e forze politiche e sindacali, infatti, gli uffici legislativi e giuridici della presidenza del consiglio dei ministri hanno redatto e consegnato al presidente del consiglio Conte un corposo documento in cui vengono evidenziate numerose criticità: dal rischio di minare il riparto di competenze tra Stato e Regioni (disciplinato dall’articolo 117 della Costituzione e  creando, di fatto, nuove regioni a statuto speciale), in caso di richiesta di ulteriori autonomie da parte di tutte le regioni italiane, al rischio per il bilancio dello Stato, fino alla necessità di riconoscere al Parlamento la facoltà di modificare le intese sulla base dell’articolo 1 della carta costituzionale.

Un documento che, in pratica, boccia senza appello la scelta di procedere con schemi d’intesa tra governo e singole regioni, che mette in guardia sul rischio che le finanze pubbliche possano saltare e, soprattutto, che tale materia non può essere sottratta alle competenze del Parlamento come se fosse un questione privata tra regioni e forze di governo dello stesso colore politico.

Come si può vedere non si tratta di richiami di poco conto, tutt’altro. L’auspicio è che il governo centrale ne tenga doverosamente conto ed eviti, in nome di promesse elettorali frettolose e campate in aria, di danneggiare l’intero sistema di rapporti istituzionali con conseguenze sulla forma stessa dello Stato e sull’assetto del regionalismo italiano.

Entrando ulteriormente nel merito dello schema d’intesa raggiunto, una delle preoccupazioni maggiori riguarda le disposizioni economiche e fiscali in materia di tributi, investimenti in energia, ambiente, sanità, mobilità, scuola.

L’articolo 5 degli schemi di intesa, infatti,   prevede che l’attribuzione delle risorse finanziarie alle Regioni sia basata, nelle more della definizione dei fabbisogni standard per ogni singola materia, sulla spesa storica riferita alle funzioni trasferite e destinata a carattere permanente, a legislazione vigente, dallo Stato alla Regione interessata. Inoltre, in considerazione delle difficoltà riscontrate nella definizione dei fabbisogni standard, gli schemi di intesa prevedono un meccanismo alternativo di determinazione delle risorse finanziarie per l’ipotesi in cui, trascorsi tre anni dall’entrata in vigore dei decreti attuativi, non siano stati ancora definiti i fabbisogni standard degli schemi di intesa.

Ora non può sfuggire che l’attribuzione delle risorse finanziarie per assicurare tutta questa serie di servizi sulla base della spesa storica determinerebbe un pesante squilibrio tra le regioni più ricche e il resto del Paese in quanto, come ampiamente denunciato, la spesa pro-capite sostenuta è molto più alta al centro-nord rispetto al Sud.

Il tutto concretizzerebbe un nuovo gap della quantità e qualità dei servizi assicurati ai cittadini che tutto è tranne il recepimento dei principi di cittadinanza e uguaglianza stabiliti dalla Costituzione.

In aggiunta si deve ancora sottolineare come per quanto attiene la spesa del settore pubblico allargato (comprendente cioè i diversi servizi) secondo uno studio –  messo a punto dalla commissione della Svimez, presieduta da Adriano Giannola, sulla base di dati della Ragioneria generale dello Stato (RGS) e dei Conti Pubblici Territoriali (CPT) territoriali –

al centro-nord viene trasferito il 71,7% delle somme sulla base di una percentuale del 65,7%  della popolazione complessiva italiana mentre, al sud la spesa di ferma al 28,3% nonostante la popolazione raggiunga il 34,3%.  Questo concretizza una minore spesa pari a circa 61 miliardi di euro che vengono sottratti ai cittadini meridionali e che vanno ad arricchire altre aree del Paese.

Già da questi semplici dati è facile comprendere come con la ripartizione della spesa pubblica su base storica le regioni ricche diventeranno sempre più ricche e quelle povere sempre più povere.

In aggiunta per quanto riguarda il meccanismo alternativo di determinazione delle risorse finanziarie inserito negli schemi d’intesa per l’ipotesi in cui, trascorsi tre anni dall’entrata in vigore dei decreti attuativi, non siano stati ancora definiti i fabbisogni standard, è altamente rischioso in quanto – scrivono sempre i tecnici degli uffici legislativi e giuridici di Palazzo Chigi- in caso di perdurante assenza dei fabbisogni standard, le Regioni destinatarie di autonomia differenziata riceverebbero, per mero effetto del decorso di tre anni, un ammontare di risorse pari almeno al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale e quindi presumibilmente maggiore della spesa storica di riferimento per quella Regione.

In buona sostanza si assisterebbe ad un complessivo aumento della spesa statale per l’esercizio delle funzioni oggetto di autonomia differenziata, che non solo contrasta con la clausola di invarianza finanziaria prevista negli schemi di intesa, e che, inoltre, non risponde alla logica di efficientamento della spesa che deve presiedere all’attribuzione di maggiore autonomia alle singole regioni.

Che l’autonomia differenziata voluta dalla maggioranza giallo-verde sia una vera e propria secessione dei ricchi, dunque, non è solo la sintesi di un ragionamento politico e sociale ma qualcosa di pericolosamente possibile e dimostrabile.

Non si può allora stare in silenzio. Bisogna far sentire forte la protesta per quanto si sta profilando all’orizzonte.

Non possono tacere in primo luogo i parlamentari eletti nella circoscrizioni meridionali che devono richiedere con forza che la discussione si svolga nelle sedi deputate di Camera e Senato e  che ogni provvedimento che modifichi l’attuale assetto del regionalismo italiano debba tenere conto del parere di tutte le regioni e dei loro organismi di rappresentanza istituzionale come la Conferenza Stato-Regioni.

Non possono tacere le Regioni meridionali così come ha ben sottolineato il presidente Oliverio. Non possono tacere i Consigli regionali che, anzi, dovrebbero prendere spunto da quanto fatto dall’Assemblea calabrese guidata da Nicola Irto che il 30 gennaio scorso ha approvato all’unanimità una risoluzione che esprime forte preoccupazione circa le ipotesi di autonomia differenziata e che diffida il governo nazionale a compiere scelte che possono incidere sui diritti civili e sociali dei cittadini che devono essere garantiti in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale.

Non possono tacere le Province e i Comuni che a cascata, se l’attuale proposta di autonomia differenziata dovesse passare senza modifiche, sarebbero tra i primi Enti a risentire della contrazione di risorse e a verificare direttamente lo scadimento di tutti i servizi da assicurare ai cittadini. Non possono tacere le forze sociali, quelle datoriali, del mondo della scuola, della sanità del terzo settore.

Non possono tacere i cittadini che non devono permettere di essere considerati di serie B solo perché sono nati e vivono nel meridione d’Italia.

E’ fin troppo evidente, infatti, che l’autonomia concessa alle regioni economicamente in salute, e quindi che hanno un maggior gettito fiscale, ridurrebbe le tasse normalmente redistribuite a livello statale, comportando minori risorse a disposizione per le regioni economicamente più in difficoltà, cioè le regioni del Sud.

C’è, dunque, l’assoluta necessità che forze politiche e sociali, classi dirigenti, istituzioni elettive di ogni ordine e grado, e le varie componenti della società parlino con una voce sola e facciano arrivare a Roma la loro protesta per quello che si sta caratterizzando come un colpo definitivo per la Calabria e l’intero Meridione di sperare, in linea con i dettami della Costituzione che riconosce ai cittadini uguali diritti, di far parte integrante e a pieno titolo del Paese.

Giovanni Puccio

Responsabile Organizzativo Pd Calabria

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