Gli intrecci tra ‘ndrangheta, politica e imprenditoria spiegati in quasi quattrocento pagine dal gup Simona Manna che lo scorso 28 ottobre ha condannato 21 dei 25 imputati, coinvolti nell’inchiesta della Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri e denominata in codice “Basso Profilo”, che hanno scelto di essere processati con il rito abbreviato. Tra di loro non c’era Antonio Gallo, detto il “principino”, figura cardine nell’impianto accusatorio sfociato nel blitz che il 21 gennaio 2021 ha portato all’emissione di 50 misure cautelari. Il noto imprenditore catanzarese, attualmente in carcere e ristretto al 41bis, ha optato per il rito ordinario ma un capitolo della sentenza d’abbreviato è dedicato proprio a lui, “punto di unione tra il mondo dell’imprenditoria ed il mondo mafioso”. Un vero e proprio “jolly” che secondo quanto emerso “fungeva da riferimento operativo delle organizzazioni ‘ndranghetistiche insistenti nell’area geografica di Sellia Marina, Catanzaro, Botricello, Mesoraca, Roccabernarda, Cutro e Cirò Marina”. Nomi di città che nelle motivazioni messe nero su bianco dal giudice affiancano i cognomi di alcuni dei più potenti boss con i quali Gallo avrebbe avuto rapporti: Nicolino Grande Aracri, Alfonso Mannolo, Antonio Santo Bagnato, Giovanni Trapasso. Ad inguaiarlo le dichiarazioni di una serie di collaboratori di giustizia ma anche alcune intercettazioni. “La sussistenza dei rapporti con questi soggetti – si legge – vengono non solo ammesse, ma addirittura decantate dal Gallo nel corso di una conversazione con Glenda Giglio allorquando parlava espressamente del suo rapporto con Nicolino Grande Aracri e Carmine Arena”.
“Talarico sceso a patti con la criminalità organizzata”
“Talarico sceso a patti con la criminalità organizzata”
Rapporti con la ‘ndrangheta crotonese ma anche con quella reggina secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Tommaso Rosa, imputato pentitosi proprio nel corso del processo e ritenuto attendibile dal giudice Simona Manna. E qui il profilo di Gallo si intreccia con la politica e, in particolare, con le ambizioni dell’ex assessore regionale Francesco Talarico, condannato a cinque anni di reclusione per il reato di scambio elettorale politico-mafioso che nel 2018 si candidò alle elezioni per la Camera dei Deputati nel collegio di Reggio Calabria. Ad appoggiarlo – secondo quanto emerso dal processo – personaggi ritenuti vicini ai clan. Nell’elenco gli inquirenti inseriscono, oltre ad Antonio Gallo, anche gli imprenditori reggini Antonino Pirrello e Natale Errigo, quest’ultimo “imparentato con esponenti della cosca De Stefano-Tegano di Archi”. Per il gup, Talarico è “un uomo delle istituzioni che scende a patti con la criminalità organizzata per sfruttarne le capacità di controllo del territorio al fine di conseguire indebiti vantaggi”. Molto ruota intorno a un affare in Albania dove Gallo doveva aprire una filiale della propria ditta specializzata nella fornitura di materiali per l’antinfortunistica. L’intreccio coinvolge il luogotenente della Guardia di finanza Ercole D’Alessandro, il figlio Luciano, l’ex consigliere comunale Tommaso Brutto e i figlio Saverio, l’imprenditore Antonino Pirrello e, appunto, Francesco Talarico. Per la Dda è un “comitato d’affari” dietro il quale si nasconde un’associazione mafiosa ma il gup non la vede allo stesso modo e nella sentenza del processo celebrato con rito abbreviato assolve da questa accusa sia Talarico che Pirrello per non aver commesso il fatto. Secondo quanto emerso dal processo Gallo avrebbe accettato di sostenere la candidatura di Talarico avvalendosi dei suoi contatti nel territorio reggino, accordandosi con esponenti politici locali e imprenditori. Tra questi spiccano i nomi di Antonino Pirrello e Natale Errigo con i quali viene organizzato anche un incontro a Roma “in occasione del quale Pirrello ed Errigo promettevano i loro voti in cambio dell’appoggio istituzionale del Talarico”. A riprova del sostegno di Gallo all’ex presidente del Consiglio regionale (all’epoca anche numero uno dell’Udc in Calabria) il fatto che Gallo avrebbe trascorso la notte seguente alla chiusura delle elezioni nella segreteria politica di Talarico insieme ai Brutto. “Pur conseguendo un risultato significativo in un territorio diverso da quello di sua provenienza, Lamezia Terme, Talarico non riusciva – si legge nella sentenza – per pochi voti a conquistare il seggio”. Secondo il gup, lo stesso Talarico “sapeva bene a chi affidarsi ed era pienamente cosciente, essendo emerso in plurimi passaggi intercettivi, qual era la posta in giuoco e quale era il tornaconto, in termini di utilitas, che avrebbe dovuto assicurare”.
L’assoluzione del notaio Guglielmo: “Non c”è prova di colpevolezza”
Tra i quattro assolti spicca invece il nome del notaio catanzarese Rocco Guglielmo, finito a processo con l’accusa di intestazione fittizia di beni e falso ideologico. I suoi legali difensori, gli avvocati Salvatore Staiano e Filippo Giunchedi, sono riusciti a smontare il castello accusatorio eretto dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro secondo cui il notaio avrebbe concretizzato con i suoi atti il passaggio delle quote societarie a cittadini albanesi (vere e proprie teste di legno) dotandoli di codice fiscale con l’obiettivo di schermare i veri proprietari. Nelle motivazioni che costituiscono la sentenza di assoluzione il gup non evidenza anomalie nella stipulazione degli atti e sottolinea: “Risulta insufficiente la prova della complicità del notaio, della sua consapevolezza in ordine alla non conoscenza della lingua italiana da parte dei soggetti albanesi e, dunque, della falsità ideologica degli atti rogati”. Nei confronti di Gulgielmo, la Procura aveva chiesto sei anni di reclusione ma per il giudice non c’è “prova di colpevolezza”. (mi.fa.)
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