L’EDITORIALE | Primo maggio, il festival dell’ipocrisia e il lavoro che non c’è

Quella che era una Repubblica fondata sul lavoro, oggi è un'Italia sgangherata che punta sul precariato e l'assistenzialismo. Un Paese diviso tra garantiti e disperati

di Mimmo Famularo – Oggi è il primo maggio. Rosso sul calendario. Rosso come i bilanci di bar, ristoranti, pizzerie, pasticcerie che stanno pagando il prezzo più alto della pandemia insieme a quell’esercito di lavoratori sostenuti solo da una cassa integrazione che arriva a singhiozzo. Rosso per i settori del commercio, dell’artigianato e dei servizi alle prese con un’economia da guerra. Rosso per l’esercito di disoccupati e inoccupati che il lavoro hanno persino smesso di cercarlo. Rosso di vergogna anche per Cgil, Cisl e Uil, la triplice sindacale che ha smesso di scendere in piazza non certo per paura del Covid e che oggi ci dice che “L’Italia si cura con il lavoro”. Tutto giusto se non fosse che la Pandemia ha messo a nudo gli errori commessi nell’ultimo decennio dai governi che si sono succeduti e che, passo dopo passo, hanno smantellato il welfare e i diritti degli stessi lavoratori. Dalle lacrime di Elsa Fornero all’epoca dell’austerità ai macroscopici errori di Roberto Speranza al tempo del Covid. Oggi il lavoro non c’è e c’è poco da festeggiare.

Una Repubblica fondata sul lavoro precario

Una Repubblica fondata sul lavoro precario

Quella che era una Repubblica fondata sul lavoro, oggi è uno Stato sgangherato che punta sul precariato e l’assistenzialismo. Trionfa l’ipocrisia perché chi vorrebbe investire ha paura di farlo, chi vorrebbe lavorare è costretto a rimanere a casa, il coprifuoco resiste a ogni logica. Chiudere è la priorità, aprire una chimera. Ci hanno detto proprio un anno fa che nessuno sarebbe rimasto indietro e invece si sono persi oltre un milione di posti di lavoro mentre trecentomila aziende hanno chiuso i battenti. Tutto nel silenzio quasi assoluto dei sindacati finiti nel frattempo nei comodi palazzi del potere. Nel frattempo la Pandemia ha fatto crescere le disuguaglianze e il lavoro è diventato sempre più provvisorio. L’Italia si cura con il lavoro sostengono. Già, ma quale lavoro se si continua a perorare la tesi del comitato tecnico scientifico al quale la politica sembra aver abdicato. E mentre la campagna vaccinale prosegue a rilento, l’Italia rischia di morire di fame. Altro che di Covid.

Il popolo dei garantiti e l’esercito dei disperati

Oggi è festa del lavoro per gli statali, garantiti dal posto fisso e dallo stipendio che arriva puntuale ogni 27 del mese. Per loro chiudere o aprire non è un problema perché tanto paga sempre e comunque lo Stato. Garantito. La vita è drammaticamente difficile per il popolo delle partite Iva, per chi lavora nel settore privato, per gli imprenditori e i commercianti (veri eroi del nostro tempo) che cercano di resistere alla propaganda chiusurista, per tutti quei lavoratori il cui futuro è sempre più cupo e precario. I dipendenti sono stati tutelati dal blocco dei licenziamenti mentre i precari e i liberi professionisti stanno pagando il prezzo più caro in assenza di un welfare che per loro non esiste. Una bomba sociale ed economica destinata a esplodere perché prima o poi lo stop ai licenziamenti finirà e perché il lavoro non si crea per decreto. Il lavoro non è precarietà ma stabilità. La decontribuzione per giovani e donne serve solo a creare ulteriori disuguaglianze. Pensate ai cinquantenni rimasti a spasso, disperati, con una famiglia a carico e un mutuo da pagare. Loro la pensione non la vedranno mai e nessun sindacato li difenderà perché non hanno tessera e non fanno numero. Sono destinati a rimanere in mezza a una strada. L’Italia che si cura con il lavoro oggi è pura retorica perché questa è l’Italia delle disparità. Anche tra Nord e Sud. Chi nasce a Milano ha sicuramente più opportunità di chi vive in una terra bella e maledetta come la Calabria. D’altronde l’ascensore sociale ha smesso di funzionare da diverso tempo. I sindacati dovrebbero tornare a tutelare le fasce più deboli, a difendere i diritti acquisiti e far capire alla politica neoliberista che la precarietà del lavoro porta solo instabilità, incertezza, ingiustizia. Un modello fallimentare.

Un vaccino sociale ed economico

La Pandemia, il Covid, l’emergenza sanitaria e quella economica possono oggi trasformarsi in una nuova, grande opportunità: puntare su un nuovo modello di sviluppo ricordando ciò che è avvenuto nelle economie del dopo-guerra. La chiave è la stabilità del lavoro nel privato come nel pubblico. Ciò può avvenire solo con una coraggiosa rivisitazione della tassazione a partire dal cuneo fiscale. La priorità del governo, ancor prima di tutto, deve essere l’occupazione e ciò passa dal sostegno all’imprenditoria sana perché il lavoro si crea solo così: incentivando gli investimenti. Non ci sono altre ricette. Per aumentare fatturati e utili servono prima di tutto i consumatori che per spendere devono però avere loro stessi un lavoro e percepire uno stipendio sicuro. E’ banale ma è così. Si chiama modello sostenibile ed è l’unico vaccino sociale ed economico che può curare un paese malato come l’Italia.

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