di Gabriella Passariello
Tre ergastoli e due condanne a pene di 30 anni ciascuno sono stati chiesti dal sostituto procuratore generale Carlo Modestino per i cinque imputati, giudicati con rito abbreviato, nell’ambito del processo di appello bis scaturito dall’operazione Filotette, dopo l’annullamento con rinvio della Corte di Cassazione. Un’inchiesta con cui i carabinieri del Comando provinciale di Crotone coordinati dalla Procura antimafia di Catanzaro, sono riusciti a ricostruire la storia di 20 anni di faide tra le cosche della ‘ndrangheta crotonese, e a fare piena luce su sette omicidi avvenuti negli anni a cavallo tra il 1989 ed il 2007. Un blitz che il 30 ottobre del 2013 aveva portato all’arresto di 17 presunti esponenti dei clan Comberiati di Petilia Policastro e Grande Aracri di Cutro. Il pg ha invocato alla Corte di assise e appello di Catanzaro la conferma della sentenza cassata: fine pena mai per i fratelli Vincenzo, Pietro e Salvatore (53enne) Comberiati, 30 anni di reclusione ciascuno per Nicolino Grande Aracri e Giuseppe Grano. La Corte ha aggiornato l’udienza al prossimo 13 giugno, giorno in cui prenderanno la parola gli avvocati difensori Gregorio Viscomi, Salvatore Staiano e Sergio Rotundo. Secondo l’impianto accusatorio gli omicidi sarebbero stati dettati dalla necessità di eliminare fisicamente i nemici delle cosche alleate: quella dei Comberiati a capo della locale di Petilia Policastro e quella di Nicolino Grande Aracri, boss della locale di Cutro.
Tre ergastoli e due condanne a pene di 30 anni ciascuno sono stati chiesti dal sostituto procuratore generale Carlo Modestino per i cinque imputati, giudicati con rito abbreviato, nell’ambito del processo di appello bis scaturito dall’operazione Filotette, dopo l’annullamento con rinvio della Corte di Cassazione. Un’inchiesta con cui i carabinieri del Comando provinciale di Crotone coordinati dalla Procura antimafia di Catanzaro, sono riusciti a ricostruire la storia di 20 anni di faide tra le cosche della ‘ndrangheta crotonese, e a fare piena luce su sette omicidi avvenuti negli anni a cavallo tra il 1989 ed il 2007. Un blitz che il 30 ottobre del 2013 aveva portato all’arresto di 17 presunti esponenti dei clan Comberiati di Petilia Policastro e Grande Aracri di Cutro. Il pg ha invocato alla Corte di assise e appello di Catanzaro la conferma della sentenza cassata: fine pena mai per i fratelli Vincenzo, Pietro e Salvatore (53enne) Comberiati, 30 anni di reclusione ciascuno per Nicolino Grande Aracri e Giuseppe Grano. La Corte ha aggiornato l’udienza al prossimo 13 giugno, giorno in cui prenderanno la parola gli avvocati difensori Gregorio Viscomi, Salvatore Staiano e Sergio Rotundo. Secondo l’impianto accusatorio gli omicidi sarebbero stati dettati dalla necessità di eliminare fisicamente i nemici delle cosche alleate: quella dei Comberiati a capo della locale di Petilia Policastro e quella di Nicolino Grande Aracri, boss della locale di Cutro.
La faida tra cosche. Il sodalizio tra le cosche scatenò una lunga faida con sette omicidi in 18 anni. A parte quello dei Comberiati, il nome più ricorrente nelle azioni delittuose è quello di Nicolino Grande Aracri. Al boss di Cutro viene contestato di aver fornito il gruppo di fuoco che uccise Carmine Lazzaro, assassinato il 16 agosto del 1992 a Steccato di Cutro. E il nome di Nicolino Grande Aracri ricorre anche in occasione degli omicidi di Ruggiero Rosario e Antonio Villirillo uccisi rispettivamente il 24 giugno 1992 e il 5 gennaio 1993 a Cutro. Le cosche alleate si scambiavano favori dandosi man forte e scambiandosi i gruppi di fuoco, e la morte di Mario Scalise, assassinato il 13 settembre del 1989 a Petilia Policastro sarebbe da inquadrare nella volontà dei clan sodali di eliminare fisicamente gli avversari o possibili nemici. Secondo le tesi accusatorie, Mario Scalise sarebbe stato legato al clan Maesano di Isola di Capo Rizzuto, rivale storico degli Arena, a cui invece erano legati i Comberiati. Stessa sorte subita da Romano Scalise, fratello di Mario, ucciso con tre colpi di fucile il 18 luglio del 2007 a Cutro mentre era a bordo del suo ciclomotore. Le cosche erano dedite al lucroso traffico di sostanze stupefacenti, smerciate anche a Milano e in altre zone del Nord, e al racket delle estorsioni, che svolgevano con assoluta padronanza. La faida tra clan rivali, ma spesso tra personaggi dello stesso clan, scoppiava sempre per meri interessi economici e di potere. Nelle associazioni di ‘ndrangheta l’essere prevaricati è un’onta che non si perdona.