La Procura di Vibo ha chiesto il rinvio a giudizio per nove indagati nell’ambito dell’inchiesta sul fallimento del 501 Hotel di Vibo Valentia e di una serie di società facenti capo alla nota famiglia di imprenditori vibonesi dei Mancini. Si tratta di Saverio Maria Mancini, 55 anni, di Vibo residente a Milano; Giovanni Mancini, 54 anni, di Vibo; Luigi De Paola, 80 anni, di Reggio Calabria e residente a Milano; Teresa Malfarà Sacchini, 63 anni, di Sant’Onofrio; Sergio Casati, 58 anni, di Vibo Valentia; Giuseppe Paparatto, 51 anni, di Ricadi; Paolo Silva, 56 anni, di Piacenza; Angelo Sabatino, 55 anni, di Dandenong (Austria) ma residente a Vibo; Isabella Lo Riggio, 54 anni di Vibo. A vario titolo sono accusati di di bancarotta fraudolenta in relazione al fallimento delle società “501 Hotel S.p.A”, “501 Hotel Gestione S.r.l.”, “Phoenices General Trade S.r.l.”, “Onda Verde Mare S.r.l.”. L’udienza preliminare è stata fissata per il 31 marzo prossimo dinanzi al gup del Tribunale di Vibo Francesca Del Vecchio. Esce dall’inchiesta Giuseppe Mancini, 48 anni, figlio del defunto Saverio, la cui posizione è stata stralciata e si va quindi verso la definitiva archiviazione.
Bancarotta da oltre 55 milioni di euro
Bancarotta da oltre 55 milioni di euro
Le indagini, dirette dal procuratore Camillo Falvo e dal sostituto procuratore Concettina Iannazzo, eseguite dalla Sezione di polizia giudiziaria – aliquota Guardia di Finanza e dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Vibo Valentia – hanno preso in esame le procedure concorsuali che nel corso degli anni si sono concluse con la dichiarazione di fallimento delle società che avevano gestito importanti strutture ricettive della provincia vibonese (Hotel 501 di Vibo Valentia, Lido degli Aranci di Vibo Valentia, Acquapark di Zambrone). Gli approfondimenti informativi ed investigativi avrebbero permesso di ricostruire una serie di operazioni societarie e finanziarie che hanno cagionato il dissesto delle società, mediante il drenaggio e la distrazione di ingenti risorse per un ammontare di 14.903.050 di euro e la conseguente creazione di una massa fallimentare per un importo di 55.759.730 di euro. “All’esito delle attività di indagine – sostengono gli inquirenti – è stato accertato che le condotte illecite commesse avevano avuto un unico filo conduttore individuabile nella gestione finalizzata al depauperamento delle risorse economiche, da parte dei cugini deceduti Giovanni Giuseppe Mancini (classe ’34) e Saverio Mancini (classe ’33), che possono essere considerati gli imprenditori di “prima generazione” del gruppo societario e successivamente dai rispettivi figli, i quali, unitamente agli altri amministratori, approfittando dell’omesso controllo da parte degli organi sociali preposti, hanno condotto al fallimento delle società”.
Le ipotesi accusatorie
Secondo le indagini i noti imprenditori, che hanno spesso ricoperto ruoli all’interno delle società, in situazioni di conflitto di interessi, hanno sottratto e drenato ingenti disponibilità finanziarie dalle società, in seguito fallite, cagionandone il dissesto, mediante una serie di operazioni dolose quali, ad esempio: la mancata registrazione di corrispettivi relativi ad eventi e ricevimenti, che venivano pagati in nero, che non confluivano nelle casse sociali; ricorrenti prelevamenti in contanti dai conti correnti delle società privi di giustificazione; l’arbitraria distribuzione di utili ai soci in contrasto con le delibere assembleari. Per l’accusa sarebbe stato messo in atto “un costante prosciugamento delle risorse societarie mediante contratti di affitto di ramo di azienda a canoni non congrui o altri contratti anomali, stipulati esclusivamente al fine di documentare “cartolarmente” l’effettuazione di servizi che in realtà non venivano prestati. Parallelamente a tali operazioni, le scritture contabili delle società venivano tenute con modalità tali da non rendere possibile o comunque ostacolare la corretta ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari”. Nel calderone dell’inchiesta sono finiti anche i E’ i componenti del collegio sindacale, i quali avevano l’obbligo, di fatto disatteso per l’accusa, “di vigilare affinché non si verificasse la mala gestio e la distrazione di risorse economiche da parte degli amministratori”.