di Felice Foresta – È una domenica di caligine, e vento di scirocco. Finestrini abbassati e un andare lento. Un rito insolito. La statale 106 è un ricamo accelerato sui nostri tragitti, e di lento conosce solo i tempi per ricucirle il manto. Un impegno familiare mi vuole alle pendici dell’altopiano. Lato marchesato di Crotone. I campi di grano sono, ormai, terrazze scoperte che tagliano le colline e il mare. Le balle di fieno, arrotondate e regali, sembrano origami di una tela di Botero. Cutro, lassù, è una lamina d’argento che affiora fra il giallo paglierino e il bianco argilla. Ci sono stato tante volte. Ma avevo un’altra età. Quella in cui non cerchi storie, trame e spigoli di identità. Vezzi di adulto e verità perdute. Non ho bisogno di pensare, e sono già in piazza. La chiesa dell’Annunziata è uno stipite cui mi aggrappo subito. Le pietre a nudo hanno il fascino sontuoso della semplicità. E la fede non conosce il lessico dello sfarzo. Anzi, non deve conoscerlo. A fianco un palazzo a tema, e poi, più in là, ancora un altro. Lì di fianco a iamula, mi dicono si chiami così, non ho capito bene cosa voglia dire. Va bene lo stesso. A me pare un varco per non cedere al brutto che pure, purtroppo, fiancheggia angoli e riseghe del paese. Un salvacondotto per la salvezza.
Continuo ancora un po’, e poi ritorno in piazza. Perché la piazza del paese è un pentagramma a parte. Uno spartito collettivo, e un assolo che riempie. E sagoma persone, saperi, idiomi. Uguali e irripetibili. Rosari con gli stessi grani, e pensieri inversi. E così incoccio in una storia. Una di quelle che, in Calabria, non impari sui libri. Una di quelle che mi consegna mastro Mario. Il caldo di scirocco è di quelli che fiaccano e scoraggiano. Ma lui, mastro Mario, ha la forza del racconto che vince l’afa. Fra le sue rughe dolci. E i calli su mani d’alabastro e malto. Ci sono luoghi, in Calabria, che ti sembra strano vedere a fianco. L’arsura che si lascia dietro la trebbia, la pietra ammonitrice e l’immobilità religiosa degli umori argentini di un anziano. Eppure è così. Spezzature e incontri. Un coagulo di opposti e contrapposti. Che si elidono. Perché le bellezze non si fanno la guerra. Le bellezze sono sorelle.
Continuo ancora un po’, e poi ritorno in piazza. Perché la piazza del paese è un pentagramma a parte. Uno spartito collettivo, e un assolo che riempie. E sagoma persone, saperi, idiomi. Uguali e irripetibili. Rosari con gli stessi grani, e pensieri inversi. E così incoccio in una storia. Una di quelle che, in Calabria, non impari sui libri. Una di quelle che mi consegna mastro Mario. Il caldo di scirocco è di quelli che fiaccano e scoraggiano. Ma lui, mastro Mario, ha la forza del racconto che vince l’afa. Fra le sue rughe dolci. E i calli su mani d’alabastro e malto. Ci sono luoghi, in Calabria, che ti sembra strano vedere a fianco. L’arsura che si lascia dietro la trebbia, la pietra ammonitrice e l’immobilità religiosa degli umori argentini di un anziano. Eppure è così. Spezzature e incontri. Un coagulo di opposti e contrapposti. Che si elidono. Perché le bellezze non si fanno la guerra. Le bellezze sono sorelle.
Adesso devo andare, e le bellezze di Cutro, nonostante siano scheggiate da specchi sfrangiati e balconi a metà, mi rasserenano. Nessuna contaminazione di cronaca e di peccato mi lambisce, però. O mi scoraggia. Neanche per un attimo ho sostato sulle radure di mille titoli locali, o strilli eteropadani. Non ho appuntato il passo, neppure, fra gli echi di sensazioni di un Pasolini rapito dal richiamo dell’ingenuo. Ho avvertito solo la sensazione di camminare su uno stagno. Di bellezza ignota, e senza firme. Una bellezza immota, ovattata e trattenuta. Che, invece, è stata immaginifica. Terrena e catartica al tempo stesso. Quasi fosse una sorpresa. L’opera omnia di un vasaio. Un po’ anonimo, e un po’ artista. Forse, del vasaio che diede il nome al borgo.
Se dicessi di essere stato in Umbria o in Toscana, nessuno, forse, si meraviglierebbe. Se dicessi di essere stato, come sono stato, in Calabria, qualcuno già aggrotterebbe la fronte per adagiarvi i suoi dubbi e le sue smorfie. Se dicessi che sono stato, come sono stato, a Cutro, qualcuno storcerebbe il muso, molti si rifugierebbero nella tana dei…tanto …si,…però,…in ogni caso. Qualcuno mi scanserebbe. Quasi la bellezza fosse demanio di liturgie che appartengono a pochi. E, poi, lo sappiamo che tu hai la stucchevole velleità del provinciale. Oltre la tua terra, vedo solo sabbia e vento. E, se interrogassi l’oracolo di Delfi, siamo certi ti direbbe che di Calabria non guarirai. Un po’ fobia, e un po’ famiglia. Un po’ malattia, e un po’ meraviglia. I tuoi confini sono stretti. Sono troppo angusti. Vedi il bello anche nel fango.
Sarà così. Non dubito. Io, quella domenica, però, non ho cercato nulla che il bello. Nient’altro che il bello che ho trovato. Perché io ho il dovere di cercare il bello, quando incrocio il bello. E di fermarmi. Certo, ho anche l’ardire di scriverci sù. A me, però, piacere vedere quel bello, narrarlo a modo mio, frugare fra le sue coste smerigliate, e immaginare. Immaginare la vita che quel bello ha concepito, animato, trasmesso e condiviso. Il compito di ciascuno di noi, io credo, è non disperdere quanto ci è stato dato in comodato d’uso per il breve tratto della nostra esistenza. E, se possibile, quella bellezza, pure resa dolente da stigmate di dolore e di non bello, renderla protagonista, e non solo reduce. Messaggera, e non solo ricordo. Nutrice, e non solo matrigna. Perché, se la bellezza salverà il mondo, qualcuno dovrà pur raccogliere le gocce della salvezza. E non farla evaporare tra gli anditi dei luoghi comuni e del pregiudizio. Io mi sforzo di farlo. Io avverto il dovere di farlo. E penso che ognuno debba sforzarsi, e abbia il dovere di farlo. Perché, un domani, sulla schiena dei nostri figli possano adagiarsi le nostre idee. E non solo la polvere che le ha nascoste.