di Felice Foresta – Ogni morte è una storia a sé. Ogni vita tolta non dice mai la verità. E, soprattutto, non si commenta. Una cosa è certa. Il COVID-19 e la battaglia per contrastarlo nasconde tante cose. Un giorno, chissà, se le conosceremo. Un giorno, però, è troppo tardi. Il dolore, certo, rimane ma si mastica adesso.
Ancorché, fosse per parte di madre originario di Catanzaro, non avevo mai visto, né avevo mai conosciuto il dott. De Donno. Mi era parso giusto, naturale oserei dire, affidare, tuttavia, un pensiero e un ricordo alla sua memoria. Tanto solo per qualche ordine di motivi che, oggi, sfidando la tolleranza agostana, mi piace affidare alle autorevoli colonne di Calabria7. Il primo, che può apparire banale, ma banale non è, è quello più immediato. E risiede nell‘ennesima conferma che i meridionali (anche il padre del dott. De Donno mi pare lo fosse) hanno sempre la capacità di affermarsi quando vanno via. Un deja vu su cui abbiamo, ormai e tristemente, fatto il callo. Un tema ormai scomparso dal dibattito, quello della mai sopita questione meridionale, che torna solo con le campane elettorali per durare lo spazio di una notte d’estate. Fra un falò e un cornetto all’alba.
Il secondo è spunto più complesso. Attiene al campo medico e, per questo, mi astengo dall’entrare nel merito. Un dato è certo, comunque. La comunità scientifica è stata colta tutta, o quasi, di sorpresa dal COVID-19. Se, nessuno lo nega che in tempi abbastanza celeri si sua giunti al vaccino, è anche vero che le interferenze dello stesso con l’organismo umano, forse, non si conoscono ancora appieno. Così come incerto è stato l’orientamento iniziale sulla portata del virus che, in pochissimo tempo, ha sovvertito le nostre esistenze e ha scompaginato i nostri affetti. L’ultimo aspetto legato alla dolorosa morte del medico di parziali origini catanzaresi è un aspetto per così dire macro. La sua non è stata l’unica e, purtroppo, non resterà l’unica morte tragica e avvolta, forse, in un mistero. Come ogni morte, però, si porta con sé l’idea della cesura, della scomparsa, e dell’irreversibile. Non affrancandosi, tuttavia e mai, da un’ineludibile tributo alla dignità che le dobbiamo. Qualunque ne sia la causa o il pretesto. Ecco cosa mi sarebbe piaciuto esprimere e certo non sono riuscito a fare. La morte, ogni morte, fosse di un re o di un quisque de populo, è un punto di non ritorno al quale dobbiamo portare rispetto. È un punto di rottura, quando è una morte voluta da chi la patisce, fra chi muore e chi gli è stato accanto. Su cui tutti dobbiamo interrogarci. Perché ognuno di noi, con una parola detta, non detta o detta male, è correo. Del proprio destino. E, spesso seppur inconsapevolmente e involontariamente, anche di quello altrui.