di Felice Foresta – Anche per oggi è annunciata un’allerta meteo. Come, negli ultimi anni, periodicamente avviene. Soprattutto, nei momenti di transizione. E in autunno, in particolare. La tecnologia e gli studi di esperti hanno fatto passi da gigante, consentendo di prevedere, con enorme dose di precisione, quando si apriranno le cataratte del cielo. Per la gioia innocente e comprensibile di scolari. Anche questa è una conquista prodigiosa del progresso. Che aumenta sensibilmente il livello di sicurezza sociale. Anche se, purtroppo, il saldo dei danni, in termini squisitamente economici, è spesso drammatico. Non ricordo, da bambino, e certamente per i mezzi tecnici su cui oggi si può contare, che fosse possibile profetizzare quando il cielo s’incattivisse. Anche perché, probabilmente o forse no, il clima era anche lui meno malato di oggi. Più regolare, almeno nel nostro continente e nelle regioni geograficamente a noi più prossime. Più uniforme e meno tropicalizzato. Ma, tentando un diverso approdo, c’è da chiedersi cosa si celi dietro la proclamazione di un’allerta. Certo, l’istinto di conservazione e di protezione. Cui, purtroppo, ex post fa da contraltare una conta dei morti (grazie a Dio, spesso solo figurati) dovuta a decenni di degrado e di oltraggio ambientale. C’è, però, a mio avviso un dato che si coglie oltre le righe e le rughe di un cielo abbrutito che è motivazione e dispositivo di una dichiarazione di pericolo. A prescindere dai suoi riverberi cromatici. Emerge, a mio parere, evidente, incontenibile e imperiosa, a dispetto degli editti di potenza, tutta la debolezza dell’uomo. Che non è solo di oggi. La storia delle alluvioni, registratesi con cadenza angosciante e angosciata anche in Calabria, ne è la conferma. Basterebbe rivedere lo straordinario lavoro di Mimmo Calopresti “Africo, la terra degli ultimi” per comprendere un fenomeno. Che non è rimasto circoscritto alla sua cifra atmosferica ma si è esteso alla tragedia di un popolo espropriato dai propri luoghi, dai propri affetti, e purtroppo, definitivamente, anche dai propri morti. Oggi, però, il tentativo dell’uomo di rintuzzare gli eventi esterni e ostili esalta la piccolezza della sua dimensione. Che rimane ancora un segno ineludibile e ineluttabile della sua storia. Il confronto con la natura rimane, e credo sarà sempre così, impari. L’inclinazione a rintanarsi nel focolare domestico ne è la conferma. E senza dotte e suggestive dissertazioni su vendette e rancori. La natura, e il clima che ne è portavoce principe, invocano solo rispetto. Nemesi, prima che della vendetta, era la dea della distribuzione della giustizia. Non quella, ancora troppo misera, dell’uomo e dei suoi piccoli confini. Ma quella che regola e armonizza il suo cammino nell’universo. Suo malgrado.