di Felice Foresta – L’Aspromonte non ha colore. L’ha ceduto al sole. Paolo Sofia è uno straordinario musicista. Una delle tante espressioni artistiche di quel lembo bellissimo e culturalmente fecondo che è l’ultimo tratto di Calabria Jonica. Paolo Sofia sa giocare, però, altrettanto bene con le parole. E così, qualche anno fa, nel brano che da il titolo al suo ultimo album, gli è riuscito facile mettere insieme e in sequenza quelle che meglio riassumono il senso, la storia e il destino della montagna calabrese più identitaria. Se c’è un segno, infatti, che colpisce dell’Aspromonte è l’assenza di un colore definito. Assenza che non è, come siamo portanti a credere, però mancanza, ma semplice lontananza. Che, in quanto tale, può essere irreversibile o solo temporanea. La lontananza da un colore particolare e pregnante che lo connota non è, tuttavia, un elemento negativo.
I colori dell’Aspromonte
Se una cosa colpisce dell’Aspromonte questa è, infatti, la sua policromia. Il suo verde intenso, mediterraneo, acuto che ti entra negli occhi e nelle vene. Un verde deciso che, pure e dolcemente, degrada senza stacchi nell’azzurro luccicante dello Jonio. L’azzurro che cogli da ogni suo angolo, come il blu cobalto del Tirreno. Così come cogli di continuo, annunciati da una musica ammaliante e discreta, i riverberi argentati delle sue tante fiumare che lo percorrono dentro, seguendo uno spartito imprevedibile di piccoli affluenti, forre e grotte. Al bianco della neve – che incipria le sue vette o la cresta dell’Etna che, sornione e fumante, ti osserva dall’altra sponda – è affidato, invece, il compito più gravoso. Al bianco delle capre che lo presidiano da costoni accidentati e da crepacci mozzafiato, come vedette irreprensibili e ancelle fedeli. Al bianco che non è colore. Ma il colore delle nostre anime. Spesso di quelle nere. Sì perché il bianco è il colore dell’Aspromonte. Il bianco che nessuno mai avrebbe attribuito a una montagna che, per tante brutte storie che vi hanno fatto abitare, è stata sempre considerata cupa, inaccessibile, inquietante. E, appunto, aspra. Il significato del suo nome, l’Aspromonte, nella sua accezione autentica, lo deve, però, proprio al bianco. Al bianco del suo volto, e non già alla ruvidezza o allo stridore del male che, da sempre, gli hanno voluto attribuire. Per storia, cronaca, ignoranza. Già l’ignoranza. Che, spesso, è poliglotta e si fa leggenda. Quella leggenda che, per via di quel gerundio impertinente, abbiamo sempre ossequiato come a qualcosa cui credere comunque, anche se con cautela, piuttosto che, come imporrebbe il lessico, come qualcosa da leggere. Anzi, da dover leggere.
Le leggende sull’Aspromonte
Di leggende intorno all’Aspromonte ne sono nate tante. La più suggestiva, forse, è quella della Sibilla che pare si sia rifugiata nel ventre sfingeo del monte bianco calabrese per annunciare l’arrivo di Cristo. Anche la storia patria ha, forse suo malgrado, reso omaggio all’Aspromonte sebbene per un fatto poco commendevole. Quella ferita alla gamba di Garibaldi che per gli scolari calabresi è sempre stata il tributo pagato al lungo percorso dell’unità nazionale – ma può dirsi, definitivamente e in concreto, avvenuto? – e che per gli altri scolari solo una macchia di sangue, tipica di quelle zone. Di leggende, nelle nostre vite, ne abbiamo incontrate e ascoltate tante. Da quella della regina maga che camminava solo di lato, a quella del fantasma del bottaio di Guardiola in Chianti, a quella tortello d’oro fatto foggiare tanto tempo fa. Alcune di queste sono così antiche che, alla fine, abbiamo finito per crederci veramente. Di brutte storie legate all’Aspromonte ce ne sono altrettante numerose che, alla fine, abbiamo finito per credere che fosse solo quello del male il suo vero colore. Ma ci siamo mai chiesti se fossero veri gli accidenti che hanno dato vita alle leggende da cui ci facciamo, più o meno consapevolmente, irretire? E, soprattutto, ci siamo mai chiesti se il male sia davvero nato in Aspromonte? A me piace credere il contrario. Anzi, a me non piace credere affatto. Perché là dove non c’è un colore, perché quell’unico colore è stato dato al sole, vuol dire che ce n’è uno solo. Quello della luce. La luce della bellezza, e della sua scoperta.