di Felice Foresta – “La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario”. Forse, aveva ragione Italo Calvino, di cui oggi ricorre l’anniversario della scomparsa, sul valore demiurgico della scuola. E l’immanenza e la modernità delle sue parole s’impongono oggi, alla vigilia della riapertura della scuola in Calabria.
Dopo circa due anni di attività didattica, obtorto collo, virtuale o quasi, si riapre. Con un carico di suggestioni, paure, aspettative. Suggestioni perché la scuola è, lo si scopre purtroppo sempre troppo tardi, l’intermezzo più straordinario della nostra vita. Paure, inevitabili, che nuove chiusure possano incombere. E non per fugaci allerte meteo ma per un virus che ha stravolto il nostro modo di pensare e di porci difronte al tempo, ai nostri cari, alla società. Aspettative, che sono quelle che si celano dietro le parole di Calvino. E, cioè, che la scuola possa assolvere a un compito primario, di formazione delle coscienze e di dispensatrice di conoscenze e saperi senza intermediazioni. In prima persona, e non de relato.
Dopo circa due anni di attività didattica, obtorto collo, virtuale o quasi, si riapre. Con un carico di suggestioni, paure, aspettative. Suggestioni perché la scuola è, lo si scopre purtroppo sempre troppo tardi, l’intermezzo più straordinario della nostra vita. Paure, inevitabili, che nuove chiusure possano incombere. E non per fugaci allerte meteo ma per un virus che ha stravolto il nostro modo di pensare e di porci difronte al tempo, ai nostri cari, alla società. Aspettative, che sono quelle che si celano dietro le parole di Calvino. E, cioè, che la scuola possa assolvere a un compito primario, di formazione delle coscienze e di dispensatrice di conoscenze e saperi senza intermediazioni. In prima persona, e non de relato.
Ricordo, il mio primo giorno al primo anno del liceo classico (all’epoca, nel lessico scolastico, c’era ancora forte l’impronta greca, il biennio era ancora il ginnasio, e il terzo anno era solo il primo liceo). Il professore di latino e greco, commentando i testi all’epoca in uso, manifestò la sua malcelata diffidenza per i testi di critica alla letteratura greca e latina. Tutti ci dimostrammo ovviamente convinti della sua tesi e, ignari, annuimmo. Lui, dopo una pausa che sapeva di eternità, lapidò i nostri entusiasmi. A me, che forse proruppi in un ottimismo più disinibito, mi disse: “Stia tranquillo (sì, ci dava proprio del lei). Ogni volta che studieremo un autore, sarà Lei e saranno i suoi compagni a dire cosa ne pensiate di quel brano, cosa voglia dire, quali significati, quali valori e quali ideali vi trasmetta”. Fu una frase che, lì per lì, pietrificò il mio sorriso. Nel tempo, fu la chiave di volta che mi permise più agevolmente di leggere tra le pieghe degli eventi e delle persone. La scuola, oggi, ha un carico di responsabilità suppletivo. Accusando un ritardo non a lei imputabile, dovendo fare i conti con risorse spesso limitate e, però, non potendo abiurare al suo compito principe di vivaio di intelligenze.
Ecco perché dico a spada tratta grazie a tutti gli insegnanti. Perché il loro impegno, a mio giudizio sottostimato e non gratificato abbastanza dal punto di vista economico, resta l’unico presidio di una società alla deriva. La mancanza di agenzie culturali e lo sfaldamento assiologico che si registra, purtroppo, in molte famiglie e in molti lembi della società impone loro un compito ulteriore. Che non è solo quello cui alludeva Calvino. Ma anche, e forse soprattutto, quello di capire che dietro ogni alunno c’è una storia. Un racconto spesso scritto a metà. Un piccolo deserto. Una domanda di affetto che rimbomba nel vuoto, o tra il tintinnio di una tastiera. Un bisogno di aiuto che rimane inascoltato. E questo compito non si trova declinato nelle algide premesse e nei farraginosi dispositivi di editti ministeriali. Questo compito è scritto sulle pareti di anime belle, come quelle di chi ha abbracciato quel sacerdozio laico che è l’insegnamento. Come quelle delle maestre che hanno una casa, sono donne e sono pure madri. Come i maestri che resistono alle intemperie, perdono la voce e spesso anche il treno dei loro desideri. Perché, quando insegni, i sogni che accarezzi e che insegui sono solo quelli dei tuoi ragazzi.