di Felice Foresta – È la prima volta che mi capita di farlo e che mi azzardo. Parlare di un libro senza averlo letto. Una sorta di recensione de relato. Mi basta, però, conoscere l’autore. E mi è stato sufficiente assistere alla presentazione alla Ubik di Catanzaro Marina. La più atipica, oserei dire irrituale, cui ho assistito. Quasi autogestita. A parlare del libro, più che lo scrittore, più che un libraio ostinato e di razza come Nunzio Belcaro, sono stati i presenti. Un’esperienza primigenia, forse. Unica e non so se ripetibile. È vero, è bastata la presenza di due giganti, Francesco Cuteri e Gioacchino Criaco, a farci entrare tra le pagine di “Quando mia madre indossò la maglietta di Franz Beckenbauer “ scritto da Francesco Pileggi. Il primo è un archeologo che incanta. Parlasse del Drago dell’antica Kaulon, la sua sensazionale scoperta del 2012 nei pressi di Monasterace Marina, del monte Athos o anche solo di una lista della spesa. Gioacchino Criaco, ultroneo ricordarlo, è uno scrittore che scortica e che leviga. Come una fiumara nel ventre dell’Aspromonte. La patria dei suoi romanzi di punta. La montagna calabrese più identitaria e controversa. E, certamente, la più drammaticamente bella.
La delicatezza di Francesco Pileggi
La delicatezza di Francesco Pileggi
A Francesco Pileggi, un trascorso professionale agli antipodi fra l’algida Germania e la faccia bruciata dell’Etiopia dove ha condotto memorabili laboratori teatrali con i bambini, è riuscito tutto più facile. E anche per chi, fra gli astanti, ha deciso di prendere la parola. Per raccontare e raccontarsi. Un’esigenza indomita che in molti hanno avvertito perché il libro di Francesco Pileggi parla di tutti noi. Delle nostre infanzie che, fossero confinate nel recinto di una ruga di paese o nel cortile di un quartiere borghese, hanno avuto gli stessi perimetri. Gli stessi esiti. Le stesse insurrezioni. Gli stessi campi da calcio, sterrati sottratti all’inedia. Le stesse porte fatte di zaini o pietre. Gli stessi sedimenti di un’assenza. Le stesse trincee in cui le mamme hanno sentenziato i loro precetti o recitato i loro rosari tra un’insalata di pomodori, una parmigiana di melanzane o il riparo tetragono e catartico di una pietanza a base di patate. Le patate, ovvero, il nostro gancio più immediato e vero, come il loro odore penetrante, con madre terra. Il tratto più accogliente del libro di Francesco Pileggi rimane, però, la delicatezza. Quella sorta di dogana in cui si frangono le nostre fragilità, le nostre mancanze e le nostre inquietudini. Non, però, per perdersi. Ma per sacrificarsi e per farsi coagulo, come avviene dopo ogni sacrificio, di verità, buoni propositi e sentimenti puri.
L’infanzia luogo sacro dell’io
L’infanzia, perché è lei che Francesco Pileggi consegna ai nostri aneliti di memoria e di futuro, è un luogo sacro del nostro io. La stagione della fantasia, come la chiamava Corrado Alvaro. Un demanio imperscrutabile. Di lei la letteratura è madida e ricchissima. Io credo che a lei mancasse solo una maglietta. Che per tutti è uguale. Come quella indossata da una mamma di paese. Come quella rigorosa e ammonitrice di un fuoriclasse, simpatico o no che potesse essere, teutonico. Come quella che Francesco Pileggi ci fa indossare. Con lo stesso numero. Perché, in fondo, siamo tutti uguali. Siamo tutti destinati a proteggerci all’ombra delle nostre infanzie. Immacolate come l’acqua di una fonte battesimale. Vergini come le querce di Africo Vecchio. Le Horae che, in un silenzio che sa di timo, more ed eterno, le custodiscono.