di Felice Foresta – A Pasquetta, non sono mai andato a Capri, a Santa Margherita Ligure, e nemmeno sul Lago di Garda. Sono passato, invece, mille volte sulla diga del Lago Passante o su quella dell’Ampollino. Perché anche la Sila è un annuncio di salvezza. Ma non ci sono andato per stendere una tovaglia, poggiarvi una teglia e i piatti di plastica. La montagna per me parla un’altra lingua. È un’altra cosa.
A Pasquetta, sono sempre andato in giro. In Calabria. Spesso, tra le sue tante ferite. Nei suoi luoghi minimi e intimiditi. Silenti e dignitosi anche nei loro portoni di alluminio anodizzato che ne deturpano il volto, ma non l’essenza. In quelli ignorati o in quelli evitati. Perché puzzano di peccato ed è meglio rimuoverli anche dalla memoria. In quelli che, apparentemente, non dicono nulla. E, invece, hanno tante storie straordinarie da raccontare. Ecco perché del tempo che fa a Pasquetta non mi è interessato mai un granché. Che piova o meno rimane un dettaglio. L’importante è un paio di scarpe buone e l’insurrezione balzana della curiosità. Perché abbiamo bisogno solo di camminare e guardare i luoghi che abbiamo sotto gli occhi, e che pure, invece, non vediamo. E, allora, oggi che abbiamo compreso la relatività delle nostre certezze, delle nostre apparenze e delle nostre vanità, abbiamo un obbligo. Morale e sociale. Di riconoscenza e premura verso questi luoghi.
A Pasquetta, sono sempre andato in giro. In Calabria. Spesso, tra le sue tante ferite. Nei suoi luoghi minimi e intimiditi. Silenti e dignitosi anche nei loro portoni di alluminio anodizzato che ne deturpano il volto, ma non l’essenza. In quelli ignorati o in quelli evitati. Perché puzzano di peccato ed è meglio rimuoverli anche dalla memoria. In quelli che, apparentemente, non dicono nulla. E, invece, hanno tante storie straordinarie da raccontare. Ecco perché del tempo che fa a Pasquetta non mi è interessato mai un granché. Che piova o meno rimane un dettaglio. L’importante è un paio di scarpe buone e l’insurrezione balzana della curiosità. Perché abbiamo bisogno solo di camminare e guardare i luoghi che abbiamo sotto gli occhi, e che pure, invece, non vediamo. E, allora, oggi che abbiamo compreso la relatività delle nostre certezze, delle nostre apparenze e delle nostre vanità, abbiamo un obbligo. Morale e sociale. Di riconoscenza e premura verso questi luoghi.
È da loro che abbiamo l’obbligo di ripartire. Dai piccoli borghi ripiegati in se stessi e nella loro gente, dai paesi abbandonati, dalle nostre radici aggrovigliate. Dai boschi lacerati dal fuoco estivo dell’Aspromonte. Dalle nostre periferie neglette e offese. Dai luoghi in cui rimane sospesa la vita e la speranza di poter continuare la propria storia. Perché, ne sono certo, è lì che torneremo per essere accolti.
È lì, allora, che dobbiamo tornare perché conoscenza è anche rimuovere le croste del pregiudizio, dell’ignoranza, della presunzione di essere migliori e vedere con occhi nuovi. Non servono attrattori culturali. Quanto sa essere brutto l’italiano quando si vuole! Quando si declina il lessico ma i contenuti sfuggono.
Servono, solo, persone che hanno ancora un’anima e buona volontà. Lo sappiamo tutti. Il rapporto fra un uomo e un luogo è una faccenda complessa. Dubbia. Controversa. Spesso, facciamo fatica a spiegarci perché. Perché, improvvisamente, un luogo ti lusinga. Ti assedia. Ti chiama. E pure tu lo scansi. Lo releghi al confino. E non solo dei tuoi itinerari. Forse, è solo perché noi non ci apparteniamo. Noi siamo solo la luce dei luoghi dov’è rimasta la nostra voglia d’infanzia. Anche se c’era nebbia.