di Gabriella Passariello- E’ inammissibile il ricorso della Dda di Salerno, che ha chiesto la misura cautelare in carcere in luogo dei domiciliari, disposti dal Riesame campano, riformando parzialmente l’ordinanza del gip, previa esclusione dell’aggravante mafiosa per il commercialista Antonio Claudio Schiavone, 55 anni, di Catanzaro, finito nell’inchiesta Genesi con l’accusa di corruzione in atti giudiziari in concorso con il giudice Marco Petrini, il medico Emilio Santoro e l’avvocato, ora radiato dall’Ordine, Francesco Saraco. Tre professionisti che si sarebbero mossi per corrompere l’ex presidente della Corte di appello del capoluogo calabrese con un unico obiettivo: cambiare il verdetto di una sentenza e ottenere il dissequestro di beni dietro compenso in denaro (LEGGI QUI). La Suprema Corte ha bocciato l’appello della Dda che mirava ad ottenere un annullamento con rinvio dell’ordinanza del Tdl per un nuovo riesame sulla misura cautelare da applicare al commercialista. Ma andiamo per gradi ricostruendo le ipotesi di accusa contestate a Schiavone e le motivazioni che hanno portato gli Ermellini a respingere il ricorso della Procura distrettuale campana.
Il patto corruttivo da 150mila euro
Il patto corruttivo da 150mila euro
Secondo le ipotesi accusatorie, il commercialista, avrebbe ricevuto nel febbraio-marzo 2019 dall’avvocato Francesco Saraco la promessa della somma complessiva di 150mila euro, con effettiva consegna quasi immediata di 60mila euro nel suo studio a Cosenza. Somma destinata a corrompere il giudice Petrini per ottenere nel processo di appello Itaca Free Boat una sentenza di assoluzione a favore del padre Antonio Saraco. Avrebbe rassicurato in data 30 marzo 2019 il medico Emilio Santoro detto Mario, che all’esito del processo di Appello, a seguito della riduzione della pena nei confronti di Maurizio Gallelli da 16 a 6 anni e del proscioglimento di Antonio Saraco, la famiglia Saraco avrebbe eseguito i pagamenti promessi al giudice Petrini. Ma c’è dell’altro. Su incarico ricevuto da Francesco Saraco, Antonio Claudio Schiavone, alla presenza di Santoro, nel mese di febbraio-marzo 2018, all’interno dell’ascensore dell’abitazione di Petrini, avrebbe consegnato al giudice una busta contenente la somma di 10mila euro. Denaro che Petrini riceveva per compiere un atto contrario ai doveri del proprio ufficio e più precisamente per adottare l’1 agosto 2018, quale presidente del collegio della sezione feriale della Corte di appello di Catanzaro, un’ordinanza di revoca parziale del sequestro di immobili nei confronti della componenti della famiglia Saraco. Con l’aggravante di aver agito al fine di agevolare la cosca di ‘ndrangheta Gallace-Gallelli di Guardavalle.
Per la Dda il commercialista può ancora delinquere
Per la Dda Schiavone avrebbe agevolato il sodalizio e il Riesame che ha sostituto al commercialista il carcere con gli arresti domiciliari non avrebbe vagliato l’intento sotteso al patto corruttivo per ottenere la riduzione di pena per Gallelli e l’assoluzione per Saraco. E la riprova che Schiavone non ha agito per un interesse personale trova riscontro nel fatto che era in società con Saraco ed era commercialista di fiducia dei Gallelli, “discendendo da ciò l’intento di agevolare le relative famiglie”. Per la Direzione distrettuale antimafia di Salerno il Tribunale del Riesame ha concesso al commercialista i domiciliari con una motivazione illogica e contraddittoria: l’attuale svolgimento della professione, costituisce ineluttabile occasione per continuare a delinquere, dal momento che Schiavone può contare su una fitta rete di contatti.
La Cassazione: “Sufficienti i domiciliari”
La sesta sezione della Corte di Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo concorda con il Riesame: Schiavone ha perseguito un interesse personale pur avendo contezza dell’interesse altrui, ma ciò non significa che vi sia l’intenzione di agevolare il sodalizio. Per la Suprema Corte è vero che i giudici del Riesame hanno rilevato come la rete di relazioni e rapporti di cui Schiavone era in grado di avvalersi rendesse necessaria una misura detentiva, ritenendo sufficiente l’applicazione degli arresti domiciliari, perché non sono emersi elementi dai quali desumere l’inclinazione di Schiavone ad eludere le prescrizioni inerenti alla misura cautelare applicatagli, che implicano un divieto di contatti con l’esterno e con possibili correi.