Giustizia: ingiusta detenzione, non basta assoluzione per risarcimento

L'imprenditore è stato rinviato a giudizio con l’accusa di calunnia ai danni di un suo concorrente

Non basta essere assolti in via definitiva in un procedimento penale ed aver subito un’ingiusta detenzione in regime di custodia cautelare per ottenere un indennizzo dallo Stato a titolo di riparazione. E’ quanto stabilito dalla Cassazione che si è pronunciata sul caso di Carlo Pezzo, 38 anni, di Sant’Onofrio, paese del Vibonese, arrestato il 30 ottobre 2007 nell’operazione antimafia denominata “Uova del drago” contro il clan Bonavota e rimasto in carcere sino al 20 aprile 2010 incassando poi l’assoluzione.

Secondo la Suprema Corte, per aversi un indennizzo a titolo di riparazione per ingiusta detenzione, la condotta del richiedente non deve essere stata caratterizzata da comportamenti “gravemente colposi”, capaci di trarre in inganno il gip al momento dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare “creando l’apparenza di una situazione illecita, suscettibile di provocare il legittimo intervento dell’autorità statale in difesa della collettività”. Nel caso di specie, pur in presenza di un’assoluzione nel processo penale, è rimasto accertato che Carlo Pezzo, sottolinea la Cassazione, ha avuto “costanti ed ambigue frequentazioni intrattenendosi solitamente con i fratelli Bonavota, soggetti di spicco dell’organizzazione”. Da qui il rigetto del ricorso ed il mancato riconoscimento di un indennizzo per ingiusta detenzione.

Secondo la Suprema Corte, per aversi un indennizzo a titolo di riparazione per ingiusta detenzione, la condotta del richiedente non deve essere stata caratterizzata da comportamenti “gravemente colposi”, capaci di trarre in inganno il gip al momento dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare “creando l’apparenza di una situazione illecita, suscettibile di provocare il legittimo intervento dell’autorità statale in difesa della collettività”. Nel caso di specie, pur in presenza di un’assoluzione nel processo penale, è rimasto accertato che Carlo Pezzo, sottolinea la Cassazione, ha avuto “costanti ed ambigue frequentazioni intrattenendosi solitamente con i fratelli Bonavota, soggetti di spicco dell’organizzazione”. Da qui il rigetto del ricorso ed il mancato riconoscimento di un indennizzo per ingiusta detenzione.

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