I calabresi alla Corte costituzionale e il figlio del noto catanzarese chiamato dalla Meloni per la riforma

Sono stati 4 i calabresi che hanno presieduto la consulta, per la riforma costituzionale la premier si affida al nipote di Giuseppe Marini

di Bruno Gemelli Sino ad ora i calabresi che hanno presieduto la Consulta sono stati quattro; nell’ordine, Aldo Corasiniti di San Sostene (15 luglio ’91-14 novembre ’92), Cesare Mirabelli di Gimigliano (23 febbraio 2000-21 novembre 2000), Cesare Ruperto di Filadelfia (6 gennaio 2001-2 dicembre 2002), Annibale Marini di Catanzaro (10 novembre 2005-9 luglio 2005).
Senza contare Costantino Mortati (Corigliano Calabro, 27/12/1891 – Roma 25/12/1985), padre costituente insieme ad altri 22 calabresi su un totale di 556 presenti nell’Assemblea costituente del 1946-1948. Kostantini Mortatë era di etnia arbëreshë. Fra i più autorevoli giuristi italiani del XX secolo e, nel 1960, fu nominato giudice della Corte costituzionale, dove rimase fino al 1972. Egli coniò la definizione “Costituzione Materiale”, un’espressione che intendeva l’insieme di principi e regole non scritte le quali, ancorché non presenti nel testo della Costituzione possono ritenersi parte integrante di essa… e in quanto tali immodificabili, pena lo stravolgimento dell’ordinamento costituzionale. Secondo la teoria della costituzione in senso materiale il partito politico è il centro non statale di direzione politica.
Oggi la premier Giorgia Meloni vuole fare la riforma costituzionale e ha chiamato a disegnarla Francesco Saverio Marini, figlio di Annibale Marini, a sua volta figlio di Giuseppe Marini, eletto nel 1970 nella prima consiliatura regionale.

Chi è l’uomo che “indirizza” la premier

Sul Marini attuale ha scritto Pietro Salvatori su huffingtonpost.it: ”Negli ultimi quattro anni abbiamo avuto tre diverse maggioranze e tre governi. Che vi sia una necessità di una revisione costituzionale non si può ignorare vista la durata media dei nostri governi che non ha eguali all’estero”. Potrebbe essere tranquillamente una dichiarazione di Giorgia Meloni, e non ci sarebbe nulla di strano visto che a pronunciare queste parole subito prima delle elezioni dello scorso anno è stato Francesco Saverio Marini, il professore di diritto che di lì a poco sarebbe stato scelto dalla premier come proprio consigliere giuridico.
Il suo a Palazzo Chigi è un ruolo che raramente attira i riflettori, com’è solito essere per quella galassia di funzionari che consigliano e corroborano le scelte dietro le quinte, mentre i microfoni inseguono le prime fila della politica. Eppure è stata la premier a chiamarlo a presenziare a tutti gli incontri avuti prima dell’estate con i partiti di opposizione, quella sorta di “consultazioni” con tanto di podio e microfono per le dichiarazioni a seguito installati per l’occasione nella sala della Regina alla Camera dei deputati.
Perché quando si parla di riforma della costituzione è Marini l’uomo da seguire nei meandri del Palazzo per capire quali sono gli orientamenti della premier. Una fonte di governo racconta che i cinque articoli che compongono la riforma di Meloni sono un incrocio del lavoro di scrittura e cesello fatto dalle segreterie legislative del ministero delle Riforme guidato da Maria Elisabetta Casellati e dal Dagl, il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi che costituisce il cuore pulsante di Palazzo Chigi. Gli input politici su come costruire il testo seguono ovviamente i desiderata di Meloni, e la premier sul tema raramente si muove prima di aver sentito il parere di Marini. È consultandosi con lui che ha deciso di virare sul premierato, “perché proprio dopo quel giro di ricognizione si è capito che su questa formula c’era la possibilità di ampliare il perimetro dei consensi oltre quello della maggioranza”.

Dalle segreterie tecniche alla stanza dei bottoni

È curioso che l’architetto della riforma che ha tra i suoi obiettivi la scomparsa dei governi tecnici sia già transitato per la presidenza del Consiglio proprio negli anni di uno degli esecutivi non politici per eccellenza. Nel 2011 fu chiamato da Antonio Catricalà (di Catanzaro, morto suicida nel 2021 n.d.r.) a capo della sua segreteria tecnica, ufficio con ingresso da piazza Colonna negli anni in cui l’avvocato cassazionista era stato chiamato da Mario Monti a ricoprire il ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Marini ha un solido curriculum nella sua materia. Diventato giovanissimo professore a Tor Vergata, da anni insegna diritto pubblico nel secondo ateneo di Roma, del quale è diventato prorettore. È un figlio d’arte. Il padre Annibale fu eletto nel 1997 alla Corte costituzionale, indicato come membro laico da Alleanza nazionale, diventando presidente della Consulta qualche anno dopo, nel 2005.
Non solo per le sue ascendenze è sempre stato considerato un uomo dalle solide convinzioni a destra, ed è dal tessuto di relazioni familiari che negli anni si è consolidato un ottimo rapporto con Alfredo Mantovano, il sottosegretario considerato non solo l’eminenza grigia di Meloni nelle stanze del potere, ma anche la cinghia di trasmissione con il mondo della magistratura da cui lo stesso Mantovano proviene. I due condividono anche ottimi legami con il Vaticano, che lo ha nominato giudice nel tribunale della piccola città stato. Un legame che ha favorito lo schiudersi delle porte della stanza dei bottoni, e che ha contribuito a consolidare la fiducia che Meloni ripone già da qualche anno nel professore, chiamato ad avere un ruolo cruciale nella riforma delle riforme che il governo di centrodestra si prefigge di portare a casa. Racconta una fonte di maggioranza che “quando si parla di riforma costituzionale c’è sempre una triade con Giorgia: Mantovano, perché c’è sempre, Giovan Battista Fazzolari, per la parte politica, e Marini per quella tecnica […]”.

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