L’estrazione sociale dei ragazzi adescati dalla mafia è quella dei ceti sociali emarginati, ma con la precisazione che vi accedano solo quelli “selezionati” dai clan dopo aver superato alcune prove a cui sono stati sottoposti. Le condotte devianti hanno per fine la realizzazione di un vantaggio economico ben più accentuato di quello che ottiene il ragazzo della devianza tradizionale. Il ragazzo della mafia riceve una dotazione (costituita da una pistola e da un giubbotto anti-proiettile) ed uno stipendio proporzionato all’attività del clan e delle sue azioni.
Al vantaggio economico si accompagna una subcultura: la mafiosità di cui questi ragazzi sono portatori rappresenta per loro un ruolo sociale di prestigio. Questa sottocultura è costituita dalla fedeltà cieca ed indiscussa al clan e al suo capo, dall’omertà come regola generale di condotta, dalla prevaricazione sui più deboli e dal sostegno al più forte, dal rifiuto per ciò che viene dallo Stato e dai suoi rappresentanti. Tutto ciò si è poi andato espandendo al di fuori dei clan, divenendo un atteggiamento culturale generalizzato, “la mafiosità senza mafia”, la cui prima regola è quella di farsi i fatti propri alla ricerca solo del piccolo vantaggio personale e con il rifiuto dei principi di lealtà, solidarietà, onestà propri del vivere civile. In questa logica, la consumazione di un grave reato, l’appartenenza a un clan, la detenzione di armi sono motivo di prestigio per il ragazzo e di rispetto verso di lui da parte degli altri, non solo coetanei, ma anche adulti, insegnanti compresi. Questa devianza è profondamente condizionata e sfruttata (anche con la minaccia di sanzioni gravissime, morte compresa) dalla “famiglia” mafiosa, che talora coincide con la famiglia dei consanguinei, talora è costituita da un gruppo estraneo, a cui non solo il ragazzo, ma anche il suo gruppo familiare finiscono per aggregarsi.
Al vantaggio economico si accompagna una subcultura: la mafiosità di cui questi ragazzi sono portatori rappresenta per loro un ruolo sociale di prestigio. Questa sottocultura è costituita dalla fedeltà cieca ed indiscussa al clan e al suo capo, dall’omertà come regola generale di condotta, dalla prevaricazione sui più deboli e dal sostegno al più forte, dal rifiuto per ciò che viene dallo Stato e dai suoi rappresentanti. Tutto ciò si è poi andato espandendo al di fuori dei clan, divenendo un atteggiamento culturale generalizzato, “la mafiosità senza mafia”, la cui prima regola è quella di farsi i fatti propri alla ricerca solo del piccolo vantaggio personale e con il rifiuto dei principi di lealtà, solidarietà, onestà propri del vivere civile. In questa logica, la consumazione di un grave reato, l’appartenenza a un clan, la detenzione di armi sono motivo di prestigio per il ragazzo e di rispetto verso di lui da parte degli altri, non solo coetanei, ma anche adulti, insegnanti compresi. Questa devianza è profondamente condizionata e sfruttata (anche con la minaccia di sanzioni gravissime, morte compresa) dalla “famiglia” mafiosa, che talora coincide con la famiglia dei consanguinei, talora è costituita da un gruppo estraneo, a cui non solo il ragazzo, ma anche il suo gruppo familiare finiscono per aggregarsi.
Rita Tulelli