Il “caso Gallo”, l’errore giudiziario e la parte calabrese della storia

Un racconto lungo e tormentato che inizia in Sicilia e finisce in Calabria. È la storia della persona più sfortunata del mondo, ma anche della più fortunata
caso gallo

Questa è la storia di Cenerentola. Una Cenerella antica e moderna. Antica perché la fiaba si perde nella notte dei tempi. Moderna perché è del Novecento, carica di colori forti ma anche pastello e di significati crepuscolari. Una storia lunga e tormentata che inizia in Sicilia e finisce in Calabria. È la storia dell’uomo più sfortunato del mondo, ma anche del più fortunato perché, dopo le pene inflittegli più dagli uomini che dal cinico destino, trovò per ben due volte la redenzione. Quando fu riconosciuto innocente e quando si sposò per la seconda volta, con Cenerella.

I protagonisti

I protagonisti

I protagonisti di questa storia sono stati Salvatore Gallo e Rosa Graziano. Lui, siciliano di Avola, 57 anni e lei, calabrese di San Pietro a Maida, 31. È la storia di un clamoroso errore giudiziario di cui fu vittima Salvatore Gallo, accusato dell’assassinio del fratello Paolo e per questo condannato all’ergastolo insieme al figlio Sebastiano ritenuto suo complice. Il fratello-morto si era “semplicemente” allontanato, tornando 7 anni dopo. Non era sparito come Ettore Majorana, ma si era spostato di 70 chilometri.

La Sicilia dei misteri e dei paradossi. La vicenda pirandelliana, in cui la realtà copiò la fantasia, ebbe inizio il 6 ottobre 1954 ad Avola, in provincia di Siracusa e, a seguito di quell’errore, costrinse il legislatore a modificare le norme sulla revisione dell’allora vigente codice di procedura penale. Il medico legale, tale dottor Ferdinando Nicoletti, prese un clamoroso abbaglio scambiando il sangue di agnello con sangue umano. Da qui la prova regina, cioè la bufala, e, quindi, la condanna.

La svolta e la parte calabrese della storia

La svolta avvenne otto anni dopo grazie alla testardaggine di un giornalista, Enzo Asciolla de “La Sicilia” di Catania. Infatti, dopo sette anni, grazie a un’inchiesta del cronista siciliano si riuscì a scovare, il 7 ottobre del 1961, il “morto”, Paolo Gallo, alla periferia di Ispica, nel ragusano. A seguito dell’errore giudiziario fu necessario modificare il codice di procedura penale, approvato dal Parlamento italiano il 14 maggio del 1965, per consentire alla Corte d’assise d’appello di Palermo di avviare il processo di revisione per Salvatore Gallo.

E qui comincia la parte calabrese della storia, che fu preda dei cantastorie. Uno di questi si trovò nella piazza di Maida, dove era presente la contadina Rosa Graziano, la novella Cenerentola, che, poi, sposò Salvatore Gallo.

Questa storia fu raccontata dal giornalista Gerardo Gambardella che assistette al matrimonio. Ma questa è la fine della storia. Una storia a lieto fine. Tutto quello che è successo prima è stato, invece, un inferno. Manzonianamente verrebbe da dire: due volte nella polvere, due volte sull’altar. Quel fatidico giorno di quasi 64 anni fa la moglie del contadino Paolo Gallo si presentò alla stazione dei Carabinieri per denunciare la scomparsa del marito che all’alba del giorno precedente era andato a lavorare i campi ma non era ritornato a casa. Nei campi i militari dell’Arma rinvennero tracce di sangue.

Altre tracce di sangue vennero trovate in casa di Salvatore Gallo, fratello dello “scomparso”. Poiché era noto in paese che tra i fratelli Gallo non c’erano buoni rapporti e spesso venivano alle mani, per gli investigatori dell’epoca fu facile fare due più due: “Paolo Gallo è stato ucciso dal fratello che con l’aiuto del figlio Sebastiano ne ha occultato il cadavere”.

Le uniche liti

La moglie di Paolo Gallo, interrogata dagli investigatori che ne volevano sapere di più sull’uomo, disse che era una persona normale e che le uniche liti avvenivano tra lui e suo fratello, Salvatore Gallo, anch’egli contadino. Aggiunse che le liti tra di loro erano note a tutti, anche perché non di rado si accapigliavano nella strada, anche per futili motivi. La donna tornò a casa non senza aver prima mostrato i luoghi dove suo marito il giorno prima era andato a lavorare. Le indagini, dunque, cominciarono dai campi di proprietà dell’uomo, dove gl’investigatori trovarono tracce di sangue che fecero esaminare dal medico legale, dottor Ferdinando Nicoletti. Il quale prese un clamoroso abbaglio scambiando il sangue di agnello con sangue umano.

Gli stessi inquirenti fecero visita al fratello dello scomparso, presso la cui casa trovarono altro sangue, anch’esso fatto analizzare dallo stesso dottore, il quale scoprì che il sangue trovato nei campi di Paolo Gallo e quello trovato in casa del fratello Salvatore era lo stesso sangue, compatibile con quello della vittima.

La conclusione degli inquirenti

Dunque, fu la conclusione degli inquirenti, Paolo Gallo era morto e ad ammazzarlo era stato suo fratello Salvatore che fu arrestato insieme al figlio Sebastiano. Il corpo della vittima non venne mai trovato, ma Salvatore Gallo e il figlio, nonostante si protestassero innocenti, vennero processati. Fu inutile, nel processo di primo grado, anche la testimonianza di due mediatori di cavalli che giurarono di aver visto Paolo Gallo vivo e vegeto. La Corte d’assise di Siracusa, davanti alla quale si celebrava il processo, fece arrestare i due testimoni e li condannò pure per falsa testimonianza.

Parentesi: poi ci si meraviglia dell’omertà. Insomma, al processo le accuse ressero, anche se i due incolpati giurarono più e più volte che loro non c’entravano nulla con la morte di Paolo. Salvatore confermò le liti frequenti con suo fratello, ma giurò che mai e poi mai lo avrebbe ucciso.

Il sangue trovato in casa

Quanto al sangue che era stato ritrovato a casa sua, Salvatore disse che era il sangue di un agnello ucciso pochi giorni prima. Niente, non fu creduto, anzi, ciò costituì un’aggravante. Salvatore Gallo fu quindi condannato all’ergastolo sia in primo grado a Siracusa sia davanti alla Corte d’assise d’appello di Catania e rinchiuso nel penitenziario dell’isola di Ventotene, mentre al figlio Sebastiano vennero inflitti 12 anni e 8 mesi per occultamento di cadavere. Il ricorso per Cassazione dei due venne dichiarato inammissibile.
La svolta avvenne otto anni dopo grazie alla testardaggine di un giornalista, Enzo Asciolla de “La Sicilia” di Catania. Infatti, dopo sette anni, grazie a un’inchiesta del cronista siciliano si riuscì a scovare, il 7 ottobre del 1961, il «morto», Paolo Gallo, alla periferia di Ispica, nel ragusano. Accadde questo: presso la caserma di Santa Croce Camerina, un paese in provincia di Ragusa e a 70 km da Avola, un uomo presentò una denuncia su un’ingiustizia da lui ritenuta essere stata commessa ai suoi danni.

Il denunciante

Il carabiniere acquisì la denuncia e mentre la portava sul tavolo di chi doveva fare indagini fu colpito dalla firma, che lesse e rilesse, fino a quando si disse che non c’erano dubbi: il denunciante era Paolo Gallo, di cui evidentemente doveva ricordarsi qualcosa. Fece un rapido accertamento e scoprì che quel Paolo Gallo era la stessa persona scomparsa 8 anni prima. Il redivivo ammise che il 6 ottobre 1954 aveva ricevuto una botta in testa dalla moglie che ogni giorno gli dava una scarica di botte, per cui, una volta riavutosi, pensò di scomparire per rifarsi una nuova vita lontano da quella donna.

La notizia, ovviamente, fece il giro del mondo e la giustizia italiana si trovò a dover risolvere un caso mai accaduto prima: un uomo chiuso in cella all’ergastolo per omicidio mentre il “morto” era in stato di fermo nella stazione dei Carabinieri. Ci vollero tre giorni per concedere la libertà provvisoria a Salvatore Gallo, anche perché le norme sulla revisione non prevedevano quel caso né il presidente della Repubblica poteva concedergli la grazia, perché quel tipo di procedimento è previsto solo per i colpevoli e non per gli innocenti. Fu così necessaria una modifica al codice di procedura penale, approvata dal Parlamento il 14 maggio del 1965, per consentire alla Corte d’assise d’appello di Palermo di avviare il processo di revisione per Salvatore Gallo.

La nuova normativa

La nuova norma stabilì pure il diritto delle vittime degli errori giudiziari a ottenere un risarcimento danni da parte dello Stato. I giudici palermitani, riconobbero l’innocenza di Salvatore Gallo ma, avendo accertato che aveva aggredito il fratello, lo condannarono a 4 anni e mezzo di reclusione, pur ritenendo la pena assorbita dai sette anni già trascorsi in carcere, e non gli concessero nessun risarcimento.
Anni dopo, il “morto”, che era stato processato per calunnia nei confronti del fratello ma assolto perché si era semplicemente allontanato volontariamente e non aveva avuto alcun ruolo nella condanna del congiunto, raccontò che Salvatore Gallo, appena uscito dal carcere “mi picchiò di nuovo e continuò a farmi dispetti”. Salvatore uscì da Ventotene su una sedia a rotelle perché in tutti quegli anni si era buscato una forte artrosi. Sin qui la prima parte della storia. Che i cantastorie del tempo catturarono raccontandola nelle piazze. In Sicilia era forte la tradizione dei cantastorie; come Franco Trincale, Rosa Balestrieri, Ignazio Buttitta.

L’approdo nella piazza di Maida

Un bel giorno la storia dell’ex ergastolano Salvatore Gallo approda nella piazza di Maida, ombelico geografico della Calabria tra Catanzaro e Lamezia. E qui comincia la parte calabrese della storia. Per i cantastorie, Salvatore, da innocente, rappresentava l’immagine di un martire, doppiamente sventurato. Pertanto, una storia di umiliazione e di dolore. Con Salvatore, vedovo e con due figli, la storia fece subito centro prima nell’animo e poi nell’immaginario di Rosa Graziano, una giovane contadina che viveva a Maida. Quella storia colpì molto Rosa.

Una lieta coincidenza

Il destino volle che si presentasse una lieta coincidenza. Alla signorina calabrese, interessata a crearsi una vita coniugale, si presentò l’occasione di conoscere Salvatore in un locale di San Pietro a Maida, dove dei suoi vecchi amici l’avevano invitato in paese per trascorrere assieme giorni diversi da quelli lasciati alle spalle. Fu quella la circostanza che consentì a Salvatore di conoscere Rosa, iniziando in tal modo, tra sguardi indiscreti, il primo approccio affettivo. Per cui venne anche stabilita, dopo aver conosciuto e con il consenso dei genitori di Rosa, la data del matrimonio.

Ma il diavolo ci mise ancora una volta la coda. Per la seconda volta a Salvatore gli tocca attraversare l’inferno. Per la celebrazione del rito religioso tra Salvatore e Rosa occorreva che il parroco ricevesse dal Comune di Noto l’estratto dell’atto civile dal quale doveva risultare data del matrimonio, generalità e data del decesso della consorte. Giacché Salvatore era vedovo con due figli. Sicché, per fissare la data del matrimonio occorreva attendere l’arrivo del certificato proveniente dal Comune di Noto. Era una semplice formalità perché bastava che l’Ufficio di stato civile del Comune di Noto rilevasse dal registro gli estremi del precedente atto di matrimonio, con indicazione della data e delle generalità dei contraenti.

La burocrazia in mano ai burocrati

Ma la burocrazia in mano ai burocrati è devastante perché trasforma le cose normali in anormali. Un gioco diabolico per distruggere la psiche della gente. Il certificato richiesto al Comune di Noto per la celebrazione del rito nuziale però tardava ad arrivare. In tale attesa, venne congelata la data della funzione religiosa. Ma bisogna spiegare l’errore dei burocrati per misurare la sfortunata esistenza di Salvatore Gallo cui il fato ha girato per la seconda volta le spalle.

Nella trascrizione dell’atto da parte dell’impiegato nel registro di stato civile, il nome di Salvatore Gallo, vedovo, coniugato con Francesca Martelletto, non risultava affatto in quanto la defunta figurava coniugata non con Salvatore, dalla quale aveva avuto anche due figli, ma con Giuseppe, altro fratello di Salvatore, emigrato a fine degli anni ’50 in America. Piovve sul bagnato. Maledetta burocrazia! Per cui si dovette attendere, per la celebrazione del matrimonio, una sentenza del Tribunale di Siracusa, per la correzione dell’errore commesso dall’impiegato dell’ufficio di stato civile del Comune di Noto, nella trascrizione dell’atto matrimoniale.

La riflessione del giudice Santiapichi

Il giudice e scrittore Severino Santiapichi, anni fa, prendendo spunto dal “caso Gallo”, fece la seguente riflessione: La presa di coscienza della fallibilità del giudice ha in sé l’ovvia conseguenza di un monito, un invito alla cautela e alla scrupolosa osservanza delle regole, soprattutto di quelle che tentano di sbarrare l’ingresso all’errore. Ma, nel parere di John Huizinga, proprio la raggiunta consapevolezza della possibilità dell’errore giudiziario sarebbe una, e però la non meno rilevante, delle cause che hanno reso “timido e oscillante”, almeno nel nostro tempo, il concetto di giustizia.

La fallibilità del giudizio

Nella ferma opinione dello storico olandese, la fallibilità del giudizio del giudice avrebbe determinato una sorta di “cattiva coscienza”, “esitanze” e ripulse nell’infliggere o, comunque, nel mantenere, la “piena misura di una pena crudele”. Allevieremo, dunque, il peso della mela cotogna sul cuore sacrificando, addolcendo le pene, umanizzandole anche. Ci sono, però, diverse e fondate ragioni per credere che queste “esitanze” non siano, poi, un fenomeno molto diffuso se persino la pena capitale, a dispetto dell’accertata sua inutilità come deterrente, dà luogo a un culto professato da molti e se strumenti che parevano sepolti da cumuli di ignominiose macerie, come la palla al piede dei detenuti, sono stati reintrodotti.

Pare allora che il “purché il reo non si salvi, il giusto péra e l’innocente…” sia come un prezzo da pagare alla sete della pena nella sua “piena” misura, senza che la costante presenza del pericolo dell’errore giudiziario abbia oramai, dal punto di vista dei “benpensanti”, la possibilità operativa di un freno. C’è, quindi, da temere che, da questa angolazione, poco sia mutato dal tempo in cui Lailler e Vonoven (Les erreures judiciaires et leurs causes, Paris 1897) additarono nella gestione del procedimento probatorio – dal momento acquisitivo a quello valutativo – il luogo del tarlo e da quando Giuseppe Sotgiu (L’errore giudiziario e altri scritti, Roma 1965), richiamando Traiano, insisteva sull’assoluta prevalenza da dare al principio “in dubio pro reo”.

In teoria, ogni sistema ha in sé sbarramenti che possono, se adeguatamente rispettati, preservare la società (ma anche il giudice – perché questo il rimorso per lo sbaglio se lo porta dentro per sempre) dai gravi guasti dell’errore giudiziario e sono sbarramenti dentro il processo e, a cose fatte, interventi per dare un sollievo a chi ha subìto le conseguenze della pronuncia o di un provvedimento che lo ha colpito danneggiandolo.

Le radici dell’errore giudiziario

Di recente, un noto giurista, Adrian A.S. Zuckerman, discutendo sulle possibilità d’intervenire radicalmente sul processo penale inglese al fine di liberarlo dall’errore giudiziario, ha rilevato che “per quanto le procedure relative alla fase pre-dibattimentale e a quella dibattimentale possano essere imperfette, non è lì che giace la fonte dei guai. Le radici dell’errore giudiziario vanno indicate nelle indagini di polizia. Sono le errate conclusioni della polizia a condurre all’esercizio dell’azione penale e a ingiustificate condanne.
Si può tentare, come è stato fatto in passato, di armare i prosecutors e i giudici di migliori procedure al fine di scoprire gli errori della polizia; tuttavia, l’esperienza passata suggerisce che è improbabile che un simile approccio indiretto renda il sistema dibattimentale sensibilmente più idoneo ad opporsi agli errori […]” (il saggio in questione è apparso in Italia su “Il giusto processo”, ottobre-dicembre 1992, pp. 297 ss.).

Se dovessimo seguire questa indicazione dovremmo correggere, anzitutto, il riferimento alla polizia sostituendolo con gli uffici del pubblico ministero e, dunque, ribaltando su questi ultimi i risultati dell’indagine di H. Packer (The limits of the criminal sanction, Stanford 1968) sulla presunzione di colpevolezza che deriverebbe, in termini pratici, dalla fiducia nella credibilità delle preliminari indagini: “Se vi è fiducia nella credibilità dell’attività amministrativa [qui il riferimento alla natura giuridica di questa attività è al common law, N.d.A.] di accertamento informale del fatto che si svolge nelle prime fasi del processo penale, le restanti fasi del processo possono essere relativamente trascurate, senza alcuna perdita ai fini dell’efficacia operativa. La presunzione di colpevolezza è l’espressione effettiva di questa fiducia”.

Un ritorno ai principi

A tal proposito, nel rilievo di Zuckerman, anzi, “[…] la stretta cooperazione tra polizia e pubblico ministero porrà probabilmente la prima in grado di fornire un input maggiore di quanto sia formalmente ammesso”. Non so se sia possibile adottare da noi il modello di una o più “reinvestigazioni” (al di fuori, ovviamente, del pre-dibattimento e del dibattimento), ma non è che, poi, in effetti, quella sorta di “reinvestigazione” che era il lavoro del vecchio giudice istruttore si sia rivelata un toccasana. Meglio, forse e tutto sommato, un ritorno ai principi e l’assillante insistenza della validità dell’indubbio pro reo oltreché della grande cautela nel dare ingresso alle prove e soprattutto nel valutarle.

Il problema dell’errore

Questa ricerca su casi di errori giudiziari, venendo al tema delle ragioni di questo scritto, ha il merito di riproporre, nella sua consistenza reale, cioè, nel suo non irrilevante spessore, il problema dell’errore giudiziario. E c’è, anzitutto, un fatto notevole costituito dalla presa di coscienza che danni non rimediabili possono derivare anche prima di una sentenza di condanna e persino ancor prima che ci sia l’intervento del giudice. Una persona, come in alcuni dei casi presentati in questa ricerca, può essere gravemente lesa da un avvio di un processo nei suoi confronti, magari un inizio non controllato quanto meno dal punto di vista delle possibili omonimie.

Mancanza di attenzioni “dovute” che generano conseguenze alle quali è difficile porre un adeguato riparo. Difetto del magistrato, ma anche di altri. Probabilmente, da questo punto di vista, ristori più consistenti di danni potrebbero contribuire ad aguzzare lo scrupolo ed anche la vista.

Un rilievo rivolto al nuovo codice

C’è un caso tra tutti quelli presentati in questa raccolta ed è il noto processo Gallo che, sceverato a fondo, potrebbe dare una mano di aiuto nel cercare alcune radici dell’errore giudiziario ma che si presta ad un rilievo rivolto al nuovo codice. Se si dovesse ripresentare un caso Gallo, le cose, quanto ad “esitanze” sul riconoscimento dell’assoluta inconciliabilità di due fatti contraddittori: da un lato, lo stare in vita del supposto morto e, dall’altro, la responsabilità per omicidio, sarebbero al punto di prima perché proprio l’esperienza di questo caso specifico è stata trascurata. Sul caso il giornalista del “Corriere della Sera”, Paolo Di Stefano, ha scritto il romanzo Giallo d’Avola (Sellerio, 2013). Gerardo Gambardella fu il cronista che seguì il matrimonio di Salvatore Gallo con Rosa Graziano. Gerardo, a quell’epoca per quale giornale scrivevi?

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