di Felice Foresta – La morte della ragazza di Soverato sbranata dai cani è un fatto di una gravità inaudita. Barbara. Inaccettabile. Il dolore, e il rispetto che lo stesso dolore pretende, impone il silenzio. E, per chi ha fede, sollecita il raccoglimento e la preghiera. C’è un altro aspetto che non ci appartiene. Quello legato alla responsabilità penale, appannaggio esclusivo degli organi preposti. Si possono fare congetture e ipotesi. Coltivare interrogativi e perché. Il verdetto, però, si concepisce e si emette solo nelle aule di giustizia. Il giudizio morale è altra cosa. Ed è giusto che ognuno di noi abbia il proprio. Nel solco di uno sgomento e di un’incredulità certamente condivisi. Una riflessione altra mi blandisce, tuttavia. Perché, quando un fatto genera tanta sofferenza, ti devi sforzare di vederlo solo nella sua ontologica crudezza e interezza.
Responsabilità collettiva
Responsabilità collettiva
Per capire se, al netto di una responsabile individuale – che, come detto, non possiamo permetterci di sindacare – ve ne sia una più ampia. Io, assai sommessamente, credo di sì. Non assorbe assolutamente quella singola, ma esiste una responsabilità collettiva anche alla base di questa tragedia. Oserei dire, storica. Come per gli incendi che hanno flagellato la nostra terra, la nostra montagna, e pure la nostra città. Tanti cani incattiviti che circolano nelle nostre campagne sono, sicuramente, il segno di un omesso controllo individuale. A mio parere, però, certificano anche la latitanza di quelle autorità che dovrebbero sorvegliare e tutelare le nostre campagne. E chi le frequenta. Qualunque ne sia il motivo. È semplicistico ridurre tutto a un corteo di responsabilità pubbliche e private. Siamo d’accordo. Forse, però, c’è una matrice a monte che codifica l’abbandono dei nostri entroterra. Ed è l’imperdonabile rinuncia a una politica agricola e zootecnica seria, rigorosa e, appunto, salvaguardata e ispezionata.
Ferita che non si rimargina
Noi, però, veniamo da lì. Da quella civiltà agropastorale da cui ci siamo voluti affrancare, come fosse una macchia. E così tutto avviene per inerzia. Senza professionalità e puntelli. Forse, perché non si hanno certezze, approdi, speranze. E si percepisce una distanza da chi, invece, certezze, approdi e speranze dovrebbe garantire. Lo so, questa, probabilmente, è solo un’amenità che partorisce dall’endemico attaccamento alla terra di chi non si arrende al suo declino. L’oltraggio riservatole quest’estate è una ferita che non si rimargina. Come, purtroppo, la morte di una ragazza che potrebbe essere la figlia di ciascuno di noi. Per la quale ogni parola, adesso, è di troppo. E per la quale, purtroppo, non basterà neppure tacere.