Infermiera contagiata nel reparto Covid di Lamezia. “Qualcuno ci dirà la verità?”

“Qualcuno mi dirà la verità su come si è contagiata mia moglie? Adesso a casa siamo tutti in quarantena, mia moglie ha dolori come tanti altri dei suoi colleghi che hanno anche difficoltà respiratorie.  Io con i miei figli provvedo a sanificare tutto di continuo. Sono molto preoccupato ma anche incredulo per la totale insicurezza nella quale sono stati lasciati a lavorare coloro che all’interno del reparto stanno assistendo i malati”. Il presidente dell’associazione “Senza Nodi”, Nadia Donato, raccoglie l’appello del marito di un’infermiera che si è contagiata in questi giorni nel reparto di Medicina Covid di Lamezia Terme e chiede: “Chi dovrebbe al nostro posto battersi per i diritti dei lavoratori e dei malati? Allora, qualcuno, invece di fare campagna elettorale dovreste essere in prima linea a chiedere che i diritti dei lavoratori e dei malati vangano rispettati”.

La storia

La storia

“Ecco il racconto del signore che parla della difficoltà di salute ed umana che stanno vivendo in questi giorni. La sua richiesta di aiuto – precisa Nadia Donato – mi arriva in questo pomeriggio festivo e piovoso. Una voce commossa, che a stento trattiene le lacrime, mi racconta l’odissea che in questi giorni stanno vivendo gli infermieri del reparto di cui stiamo scrivendo da un po’. Sono stati lasciati da soli a fare turni che non competono ad un reparto come quello, sono arrivati anche a 17 ore di lavoro che non spettano a nessun lavoratore. Camici, mascherine, guanti etc, vengono forniti con il contagocce, il percorso sporco e pulito nessuno lo ha mai ben individuato, e poi il confronto continuo con la sofferenza dei malati. Ma è disumano!” .“Eppure – prosegue la nota – loro con coraggio continuano a lavorare nonostante vengano trattati così”. Consapevole che il mestiere scelto dalla moglie comporta dei rischi, il signore dall’altro capo del telefono, mi evidenzia che se il pericolo va messo in conto, la sicurezza per il personale ed i malati, in un ospedale deve essere al primo posto.

“Ma in questo reparto non è cosi – ha risposto il marito dell’infermiera contagiata– la sicurezza è zero più zero, niente. Continuo a chiedermi perché in un reparto nel quale dove essere effettuato solo lo screening, oggi ci sono malati gravi con il casco? È’ una situazione di grande preoccupazione per la quale non mi capacito. Perché voglio sapere come mai mia moglie si è infettata. Non è possibile che gli infermieri debbano fare turni massacranti quando, in altri ospedale dove la sicurezza viene garantita, stanno con il malato poche ore e poi hanno il cambio.

La risposta sarebbe stata che alcuni componenti del reparto si sarebbero infettati nello spogliatoio. “Non sappiamo se è vero – spiega l’uomo all’associazione – se invece c’è altro. Il percorso non è garantito nemmeno da una linea rossa, e i poveri lavoratori senza una reale formazione per assistere malati con questa patologia, continuano ad essere mandati in prima linea. Non c’è sanificazione e loro si ammalano, mentre qualcuno continuano a reclutare personale da altri reparti e comunque, anche se nuovo il personale è inesperto. Ma cosa sanno fare senza preparazione? Come trattare questi pazienti che hanno bisogno continuo? Sanno usare i macchinari? Sanno usare i caschi che consento al malato di respirare? Perché un infermiere deve fare anche fino a 17 ore di lavoro sino a che non riesce a ricevere il cambio?”

Le altre testimonianze

“Le foto che vi propongo sono del reparto in questione – scrive Donato – e mostrano la mancanza delle strisce rosse, non c’è areazione nei locali e manca la pressione negativa e cosa altro ancora. Ma allora dove sono gli accreditamenti funzionale, strutturale, organizzativo del personale necessari ad un’apertura di un reparto Covid? La Regione ha stanziato dei soldi per il personale dedicato al Covid, a Lamezia sono arrivati? O forse Lamezia non li ha avuti perché non è autorizzata ad avere un reparto Covid così? Soveria Mannelli accreditata con 20 posti letto post acuzia, perchè non ha aperto? Anche a quell’ospedale mancavano i requisiti? Come associazione possiamo solo porci delle domande e renderle pubbliche per tentare di stare vicine a quanti si rivolgono a noi nel momento così di sofferenza e preoccupazione”.

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