La concreta paura delle donne afgane di “(ri)scomparire” dietro un “panno blu”

Le riflessioni di Saveria Cusumano, avvocato, attivista diritti umani e collaboratrice centro di ricerca Monoriti sulle condizioni particolari di donne e bambini dopo il ritorno al potere dei talebani
afghanistan fuga

“Dopo circa un ventennio di guerra (utile?) e oltre 250 mila morti, i talebani tornano ‘militarmente e culturalmente’ alla guida dell’Afghanistan.  Un paese martoriato, tornato violentemente, dopo l’allontanamento delle forze armate della coalizione internazionale, in mano ai fondamentalisti islamici”.

Lo scrive Saveria Cusumano, avvocato, attivista diritti umani e collaboratrice centro di ricerca Monoriti, secondo la quale “vittima, come per tutte le guerre, la popolazione civile, in particolare i bambini e le donne sulle quali, tra l’altro, incombe il concreto pericolo di vedere svanire i (seppur modesti) diritti faticosamente conquistati negli ultimi 20 anni. Hanno paura le ragazze afgane – prosegue Cusumano – e hanno paura le loro madri che temono il ritorno ad un sistema patriarcale fondamentalista e, dunque, all’oscurantismo dei diritti civili. Non si fidano, le donne afgane, delle milizie islamiche e delle -poco credibili-promesse fatte alla comunità internazionale di rispettare i diritti delle donne e di garantire loro l’accesso all’istruzione. Non si fidano di chi, sino alla caduta del regime islamico nel 2001, ha negato loro ogni diritto, dall’istruzione al lavoro. Nessun diritto se donna, nemmeno il diritto di ridere ad alta voce, ma solo rigida osservanza di regole ferree, come il dover trascorrere tutto il tempo nella propria abitazione sotto il controllo diretto degli uomini, il divieto di indossare i tacchi alti, l’obbligo di indossare il burqa.   Alle donne è stato negato finanche il diritto alla salute non permettendo di essere curate se il medico specialista era un uomo. Soltanto dopo la caduta del regime, l’Afghanistan si è dotato, nel 2004, di una nuova costituzione redatta sulla base della costituzione del 1964 seppur con sostanziali differenze a partire dalla forma di stato, non più monarchia ma repubblica e con una forma di governo presidenziale. La nuova costituzione, ripristinando il codice civile del 1976 e il codice della famiglia del 1971 – aggiunge Cusumano – ha, tra l’altro, sancito, quantomeno formalmente, all’art 22, l’uguaglianza tra uomini e donne, la parità di trattamento davanti alla legge, nonché l’ingresso delle donne, nella percentuale del 25%, in parlamento. Tuttavia, ai pochi diritti conquistati non corrisponde un reale cambio di mentalità afgana che considera le donne (s)oggetti con pochi diritti e molti doveri”. Per l’avvocato Cusumano “non è casuale che, sebbene nel 2009 sia entrata in vigore una legge contro la violenza che ha portato, dieci anni più tardi, alla riforma del codice penale con una sezione interamente dedicata alla tutela delle donne, ancora oggi la violenza sulle donne è molta alta in tutto il paese ed i casi di violenza sessuale sono all’ordine del giorno”.

Lo scrive Saveria Cusumano, avvocato, attivista diritti umani e collaboratrice centro di ricerca Monoriti, secondo la quale “vittima, come per tutte le guerre, la popolazione civile, in particolare i bambini e le donne sulle quali, tra l’altro, incombe il concreto pericolo di vedere svanire i (seppur modesti) diritti faticosamente conquistati negli ultimi 20 anni. Hanno paura le ragazze afgane – prosegue Cusumano – e hanno paura le loro madri che temono il ritorno ad un sistema patriarcale fondamentalista e, dunque, all’oscurantismo dei diritti civili. Non si fidano, le donne afgane, delle milizie islamiche e delle -poco credibili-promesse fatte alla comunità internazionale di rispettare i diritti delle donne e di garantire loro l’accesso all’istruzione. Non si fidano di chi, sino alla caduta del regime islamico nel 2001, ha negato loro ogni diritto, dall’istruzione al lavoro. Nessun diritto se donna, nemmeno il diritto di ridere ad alta voce, ma solo rigida osservanza di regole ferree, come il dover trascorrere tutto il tempo nella propria abitazione sotto il controllo diretto degli uomini, il divieto di indossare i tacchi alti, l’obbligo di indossare il burqa.   Alle donne è stato negato finanche il diritto alla salute non permettendo di essere curate se il medico specialista era un uomo. Soltanto dopo la caduta del regime, l’Afghanistan si è dotato, nel 2004, di una nuova costituzione redatta sulla base della costituzione del 1964 seppur con sostanziali differenze a partire dalla forma di stato, non più monarchia ma repubblica e con una forma di governo presidenziale. La nuova costituzione, ripristinando il codice civile del 1976 e il codice della famiglia del 1971 – aggiunge Cusumano – ha, tra l’altro, sancito, quantomeno formalmente, all’art 22, l’uguaglianza tra uomini e donne, la parità di trattamento davanti alla legge, nonché l’ingresso delle donne, nella percentuale del 25%, in parlamento. Tuttavia, ai pochi diritti conquistati non corrisponde un reale cambio di mentalità afgana che considera le donne (s)oggetti con pochi diritti e molti doveri”. Per l’avvocato Cusumano “non è casuale che, sebbene nel 2009 sia entrata in vigore una legge contro la violenza che ha portato, dieci anni più tardi, alla riforma del codice penale con una sezione interamente dedicata alla tutela delle donne, ancora oggi la violenza sulle donne è molta alta in tutto il paese ed i casi di violenza sessuale sono all’ordine del giorno”.

“L’Afghanistan non è un Paese per donne”

“I dati statistici – scrive ancora Cusumano – dimostrano, infatti, che l’Afghanistan non è un Paese per donne, soprattutto nelle zone rurali dove le ragazze continuano a sposarsi giovanissime (appena quindicenni) e dove l’87% delle stesse continua a subire violenza. Ad una modernità che si riflette nei (pochi) diritti conquistati, non corrisponde una effettiva evoluzione culturale (si pensi che sino a qualche anno fa erano “formalmente” in vigore pratiche tribali quali il” ba ad” “matrimonio forzato per risolvere controversie”).  Certamente, buone leggi sono state emanate ma di fatto, in molte zone del paese, mai applicate, perché ancora forte l’oppressione della sharia, il che comporta che i diritti riconosciuti alle donne sono poco più che mera enunciazione teorica. Tale consapevolezza, però, non può e non deve costituire un alibi per le nostre coscienze”.

“L’Europa non può rimanere indifferente”

“La difesa dei diritti umani, connaturati alla persona sin dalla nascita a prescindere dalla cittadinanza, dall’etnia, dalle convinzioni personali e dalla religione, è un dovere per ogni democrazia. L’Italia che è parte della Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne e sostiene le numerose iniziative che ogni anno vengono promosse su tali temi in ambito ONU, partecipando attivamente ai negoziati sulle risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio Diritti Umani dell’ONU, temi sui quali, tradizionalmente, svolge il ruolo di negoziatore per conto dell’Unione Europea, è davanti ad un bivio epocale. L’Europa tutta (ma non solo) è davanti ad un bivio epocale. Di fronte alla disperazione del popolo afgano, delle donne in particolare che tentano di fuggire dalla furia iconoclastica ed oscurantistica dei talebani, non si può rimanere indifferenti, la crescente violazione dei diritti impone di prendere una posizione. L’Europa – conclude Cusumano – non può rimanere in silenzio, ma ha il dovere di attivare importanti iniziative politiche a sostegno dei diritti delle donne che “per tutta la vita hanno combattuto contro l’immagine della donna afgana come una figura senza volto ricoperta da un panno blu” (studentessa afgana dell’Università di Kabul)”.

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