di Felice Foresta- La sveglia e le convenzioni. Scegliere, autodeterminarsi. Il diritto allo studio. Quello alla salute. E quello di morire pregando il proprio Dio. Il mistero del virus. E quello di cosa ci sta dietro. Il diritto di Difesa e il legittimo impedimento non riconosciuto. L’uomo e l’ergastolo. L’ergastolo ostativo. I tanti ergastoli del quotidiano. Le origini e la fine. Le nostre carceri. Gli esperti. I neofiti. Gli erranti. Le dosi, e le antitesi. I no vaccino e i fragili. Chi pontifica e i medici di trincea. L’obbligo vaccinale vero e quello surrettizio. Un destino negativo, altrimenti era meglio morire da piccoli. Le ragioni della scienza. Quelle dell’economia. Adesso c’è puzza di morte che viene dal cielo. La guerra dietro l’angolo. Un popolo che soffre e scappa. Un uomo solo al comando che ha fame. Maledettamente fame. Il potere e il denaro. La Storia che impazza, espropria e retrocede. La fuga dei cervelli. I giovani costretti alla resa. I paesi che muoiono tra pianti strozzati. Chi emigra e chi divide. Chi migra e chi muore. Chi accoglie è sempre solo. I social e gli influencers che dettano le regole. Le multinazionali e il loro governo ombra. Le elezioni che sembrano logge di parole impazzite. Fosse pure per un posto al condominio dei pensieri persi. Le capre che nei loro aspromonti non cedono e riescono a decidere ancora il loro da farsi. I contadini che coltivano speranze e raccolgono povertà.
“Un attimo di tregua… c’è bisogno di silenzio”
“Un attimo di tregua… c’è bisogno di silenzio”
Dio delle nevi, ma cosa è diventata la nostra vita? Di cosa dobbiamo vivere, e morire? Cosa dobbiamo cercare e trovare? Un attimo di tregua. Un pontile su cui riflettere. Forse, solo silenzio. Sì, solo silenzio. Perché il rumore delle cose segna un confine. Un valico. Uno sbadiglio. Quello di un tempo distratto. Il nostro. Intenti a vezzeggiare con il presente per assecondarlo alla nostra impazienza, ci lasciamo attraversare. Senza assaporare il silenzio. Quello che sta dentro di noi, e quello che vige poco oltre. In quel regno, che vorremmo inanimato, delle cose. Che, anche da un angolo malfermo, invece fanno rumore. Il loro inconfondibile e inconfutabile rumore. Che è un’enclave di segni, spezzature, macchie, e scheggiature. Una disarmonia apparente che, invece, si fa racconto ed epopea. Di giorni felici di maggio che brucia d’estate; di ottobre che si fa avamposto d’autunno e di un raccolto che sfugge; di lunghe notti di merla e di gennaio, gelido e silente che accomuna la gente nei fiordi dei propri cantucci.
“La libertà tace, docile e indifesa”
Mentre lei ingabbia silenzio e solitudine. Tra una porta che cigola, una finestra che resiste, e una trave che mimetizza se stessa tra polvere e tormenti. Là fuori, invece, la neve si adagia come zucchero a velo su faggi impauriti, affievolisce la fatica dell’acqua e impantana i passi inermi del capriolo. E lei rimane nel suo angolo. Quasi fosse una matrona medievale pronta a dare le direttive. Quasi fosse una matrioska nel cui ventre si rinnova una stirpe e una speranza. Quasi fosse un oratore pronto a prendere la parola come un mormone sullo speakers’ corner di Hyde Park o in un agorà di scribi e farisei.
E, invece, libertà tace. Docile e indifesa. Tace. Perché è una cosa. E le cose non parlano. Fanno rumore. Per farci sentire più forte il tempo che ci facciamo sfuggire. Auguri a chi, a suo modo, ancora semina libertà.