Le due facce di Bonavota, il malandrino con il cervello: da baby-boss a capo di una holding di ‘ndrangheta

Catturato nella cattedrale di Genova, imputato in Rinascita Scott ma formalmente incensurato. Per la Legge Cartabia è ancora un presunto boss

Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro era diventato il latitante più ricercato d’Italia. Pasquale Bonavota, 50 anni da compiere nel prossimo mese di gennaio, è ritenuto dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, che gli dava la caccia da quattro anni, la mente della potente famiglia di ‘ndrangheta con radice a Sant’Onofrio e ramificazioni in Piemonte, Liguria, persino Toronto. Il “patriarca” Vincenzo Bonavota, ovvero il padre del super latitante, era stato espulso dal Canada dove era emigrato e rispedito in Calabria dove le numerose indagini sviluppate negli ultimi trenta anni lo indicavano come l’artefice di una cosca a conduzione familiare alleata con le più potenti famiglie di ‘ndrangheta del Reggino, capace di contrapporsi allo strapotere dei Mancuso di Limbadi, il clan storicamente egemone in provincia di Vibo Valentia.

“Il malandrino si fa con il cervello”

“Il malandrino si fa con il cervello”

Non ancora cinquantenne, Pasquale Bonavota avrebbe preso lo scettro del comando trasformando il clan in una vera e propria holding criminale con affari a Roma e nel Nord Italia dove oggi è stato localizzato e catturato dai carabinieri del Ros (LEGGI QUI). Le redini del potere le avrebbe prese nel 1997 dopo la morte del padre avvenuta in seguito a un malore. Lui la mente, il fratello Domenico il braccio armato. Cresciuto a pane e pallottole, già a sedici anni si trovò al centro della cruenta guerra di mafia che contrapponeva i Bonavota ai Petrolo di Stefanaconi e che culminò con la cosiddetta strage dell’Epifania del 1991 quando un commando sparò all’impazzata nella piazza principale di Sant’Onofrio uccidendo due persone, del tutto estranee alla faida. Emblematica un’intercettazione finita agli atti di Rinascita Scott: “Mio padre ha detto una parola che allora io non capivo perché ero un ragazzo (…) se uno vuole fare il malandrino devi avere pure la mentalità, perché il malandrino, non si fa con il fucile (…) ormai si fa con il cervello, con diplomazia”. Questa frase sintetizza perfettamente Pasquale Bonavota, le sue origini, la sua ascesa, il suo modo di comandare. Da boss bambino, com’era stato appellato perché a 16 anni girava con una pistola in tasca annunciando vendette contro i rivali nell’ambito della guerra di mafia che stava sterminando la sua famiglia, a boss imprenditore capace di sfuggire alle forze dell’ordine che per anni gli hanno dato la caccia e ad accrescere il patrimonio di famiglia.

Le due facce di Pasquale Bonavota

Pasquale Bonavota cresce a Sant’Onofrio e investe inizialmente nel business dei videogiochi imponendo ai bar e agli esercizi commerciali le sue slot-machine. Stringe alleanze anche all’infuori del territorio di origine moltiplicando i suoi affari a Roma, in Piemonte e in Liguria. Nella Capitale investe ingenti quantità di denaro acquistando numerose attività commerciali. Parte della sua famiglia si trapianta a Carmagnola in provincia di Torino, l’altro feudo dei Bonavota. Il suo patrimonio – secondo l’accusa – sarebbe cresciuto attraverso il controllo della spaccio di sostanze stupefacenti e i legami sempre più influenti con soggetti di primo piano della ‘ndrangheta. In Calabria come a Roma. In una recente intervista l’attuale sostituto procuratore generale Marisa Manzini, uno dei primi magistrati a occuparsi dell’ascesa criminale dei Bonavota, lo ricorda come una persona dalle due facce criminali: “Quella di ‘ndrangheta vecchia maniera, cresciuto all’interno di un clan che aveva fatto della dinamica violenta il leit motiv della propria vita, e quella del rampollo intenzionato ad estendere la presenza ben al di fuori dei limiti territoriali del suo comune”. La cronaca lo rintraccia infatti a Carmagnola prima, a Roma dopo. E viceversa.

Per la Legge Cartabia è un presunto boss

Pasquale Bonavota ha fin qui evitato qualsiasi condanna in via definitiva e l’ergastolo inflitto in primo grado nel processo scaturito dall’operazione antimafia “Conquista” gli è stato cancellato dalla Corte d’Appello di Catanzaro che lo ha assolto dalle accuse di essere stato il mandante di due omicidi. La scorsa estate ha incassato l’assoluzione in un altro processo: quello che punta a fare luce sull’omicidio di Domenico Belsito avvenuto a Pizzo nel 2004. In attesa dell’appello, il 50enne di Sant’Onofrio è finito in carcere perché imputato nel maxiprocesso “Rinascita Scott” dove deve rispondere insieme ai suoi fratelli e ai suoi presunti sodali di associazione mafiosa. Catturato dai carabinieri, fin qui è riuscito sempre a farla franca. In qualsiasi processo tant’è che – come sottolinea spesso il suo avvocato, Tiziana Barillaro –  nei suoi confronti non c’è alcuna condanna passata in giudicato. Pasquale Bonavota è formalmente incensurato e per la Legge Cartabia è ancora un presunto boss. Innocente fino a prova contraria.

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