Il Tribunale civile le riconosce ora 120.000 euro di risarcimento, ma la sorella di Lea Garofalo lamenta di non sapere da chi farseli dare perché l’assassino di Lea risulta nullatenente e il Fondo di rotazione del ministero dell’Interno per la solidarietà alle vittime di mafia le rifiuta i soldi rimproverandole di non aver tagliato i ponti con la propria famiglia di ambiente ’ndranghetista. E’ quanto scrive il Corriere della Sera raccontando la storia di Marisa, la sorella di Lea Garofalo, la testimone di giustizia attirata in una trappola mortale e uccisa nel 2009. Il processo si è concluso con la conferma in Cassazione di quattro ergastoli (tra cui anche il marito di Lea, Carlo Cosco), una condanna a 25 anni nei confronti degli assassini e il risarcimento dei danni non patrimoniali da liquidarsi in un separato giudizio civile.
Lo stop del Viminale
Lo stop del Viminale
Adesso il giudice della X sezione civile del Tribunale, Marco Luigi Quatrida, ha deciso di liquidare a Marisa Garofalo complessivamente 120.000 euro. Dal Viminale però è arrivato un primo stop “per la stretta contiguità della sua famiglia originaria alla criminalità organizzata di Petilia Policastro nella quale ha continuato a vivere”. Secondo il Viminale, infatti, la sorella prima dell’uccisione di Lea “non ha mai manifestato il proposito di volersi affrancare dall’entourage familiare ’ndranghetista, e la condotta dissociativa con la costituzione di parte civile si è manifestata solo successivamente al tragico evento”. Il suo avvocato Roberto d’Ippolito ribatte che “Marisa è incensurata, svolge un regolare lavoro, non si ha notizia di sue frequentazioni con pregiudicati, e anzi profonde instancabile impegno per onorare la memoria della sorella e ostracizzare la ’ndrangheta”.