di Danilo Colacino – Città spettrali, e non più solo di sera o di notte, video di luoghi che sembrano deserti metropolitani e più in generale uno scenario da imminente sbarco degli alieni o arrivo di un potente esercito straniero.
Già, anche in Calabria, il Coronavirus ha portato la guerra. Un conflitto invisibile, senza bombe, spari, soldati o morti per le strade.
Soltanto la paura, quella che assale chiunque mentre magari sente in un piccolo centro un’auto della polizia locale (con dentro dei vigili di sicuro conosciuti da sempre) annunciare la richiesta – nel frattempo divenuta quasi ordine perentorio, alla luce delle ulteriori restrizioni imposte dal Dpcm Conte – di restare chiusi in casa.
Tutto giusto, ci mancherebbe.
Ma qui occorre far presto perché sono in gioco, oltre alla primaria esigenza di preservare la salute pubblica, il blocco totale dell’economia e la tenuta psicologica collettiva, soprattutto in comunità meno grandi e più abituate all’aggregazione quotidiana come quella calabra, in cui la mancanza di contatto fisico (il solito doppio bacio di saluto, un abbraccio o anche una semplice stretta di mano) o anche solo di un rapporto relazionale interpersonale alla lunga può incidere al pari di un’infezione da Covid-19.
Un morbo che uccide in bassa percentuale i corpi, ma fiacca le menti e i cuori con il serpeggiante terrore generato.