Locri, i Cordì e i padroni della morte

Di Vincenzo Imperitura

Prepotenze, soprusi, minacce e intimidazioni: il giogo «arrogante e spudorato» che il gruppo riconducibile alla galassia criminale dei Cordì – famiglia di primo piano nel panorama ‘ndranghetistico dello Jonio reggino – esercitava su Locri, non si faceva mancare niente, riuscendo a condizionare la vita dei cittadini locresi in tutte le sue sfumature, anche in quelle legate alla morte.

Prepotenze, soprusi, minacce e intimidazioni: il giogo «arrogante e spudorato» che il gruppo riconducibile alla galassia criminale dei Cordì – famiglia di primo piano nel panorama ‘ndranghetistico dello Jonio reggino – esercitava su Locri, non si faceva mancare niente, riuscendo a condizionare la vita dei cittadini locresi in tutte le sue sfumature, anche in quelle legate alla morte.

È CASA MIA

Il cimitero della città era considerato come una sorta di zona franca da parte della famiglia Alì – gruppo da anni legato alla cosca posta al vertice della Locale di Locri – che da un trentennio buono, in barba a regolamenti, proteste e allontanamenti più o meno forzosi, era arrivata a gestire in modo pressoché totale tutte le fasi legate al mondo funerario. Un’organizzazione “verticale” che, hanno scoperto gli inquirenti, riusciva a occuparsi di tutte le fasi che seguono una morte. Dal trasporto dei feretri, all’organizzazione del funerale e alla vendita dei fiori. Ma i soldi veri, Cosimo Alì – dipendente comunale poco in pensione e che era stato assunto in municipio negli anni ’80 con le funzioni di necroforo addetto alle pulizie – li faceva con la sistemazione delle salme. Nella sostanza, sfruttando la parte vecchia del cimitero cittadino, quella cioè costruita tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900, Alì avrebbe venduto tombe e loculi senza informare nessuno. Tombe che pur di essere nuovamente messe sul mercato, erano state svuotate dei resti mortali che avevano contenuto. Una gestione completamente autonoma che durava da un trentennio e che, sfruttando il caos venuto fuori dalla totale assenza di qualsiasi  censimento di quella parte del cimitero nel quale Alì riusciva a muoversi perfettamente, aveva consentito agli indagati di vendere per anni, lotti di terreno dove costruire o ampliare nuove tombe. Il tutto senza minimamente curarsi di passare attraverso gli uffici comunali.

E dopo avere “trovato” il posto per il nuovo cliente (che spesso veniva individuato grazie a soffiate che venivano dall’ospedale di Locri), il gruppo finito agli arresti, si occupava di tutti lavori edili legati alla sistemazione della tomba. Una sorta di “concessione” monopolistica del servizio che Cosimo Alì e suo figlio si erano auto concesso e che curavano in tutti i dettagli; una finta concessione che gli indagati difendevano quando qualcuno provava a mettersi in mezzo. Fosse questo un tecnico comunale – aggredito dallo stesso Alì che lo rimproverava, con invidiabile faccia di bronzo, di «volersi impicciare dei posti nel cimitero» mentre avrebbe dovuto solo «preoccuparsi delle carte» – o un piccolo costruttore “reo” di avere accettato l’incarico per la sistemazione di un loculo e che si è ritrovato con l’autocarro bruciato dall’operaio degli Alì, colto sul fatto in quell’occasione, dai carabinieri di Locri. I lavori nel cimitero di Locri erano i suoi e su questo il braccio destro di Vincenzo Cordì, non sentiva ragioni: «Questa è casa mia – aveva urlato Alì ad un imprenditore che stava per realizzare una serie di piccoli lavori su una cappella – non è casa tua che fai quello che vuoi. Vattene e diglielo a questi quattro mastri di merda».

E ancora, le minacce via social al sindaco Calabrese  «Giovannone un giorno ti dirò dove sono seppelliti i tuoi parenti» e l’ordigno esplosivo con sette candelotti e una miccia ritrovato, fortunatamente non esploso, davanti casa del dirigente comunale che aveva osato firmare l’atto che trasferiva Alì ad altro incarico nell’organigramma del comune. Uno strapotere «spudorato e arrogante» finito ieri anche grazie alle denunce di tanti cittadini che si erano imbattuti, loro malgrado, negli affari dell’ex dipendente comunale.

Redazione Calabria 7

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