di Gabriella Passariello- Dall’operatività della ‘ndrina dei Bonavota nel Torinese dove si sarebbe ramificata una parte della consorteria criminale egemone a Sant’Onofrio e dintorni alla figura di Salvatore Arone, detto Turi, che insieme al fratello Francesco rappresenterebbe il vertice della ‘ndrina in territorio piemontese. Il pentito Andrea Mantella, ex boss scissionista dei Pardea Ranisi ha svelato il volto della ‘ndrangheta di Carmagnola, nell’ambito del processo Carminius-Fenice, che si sta celebrando davanti ai giudici del Tribunale collegiale di Asti dove è stato sentito il 14 aprile scorso come imputato per reato connesso.
“La famiglia Arone e il clan Bonavota sono la stessa cosa”
“La famiglia Arone e il clan Bonavota sono la stessa cosa”
Ha ripercorso la sua carriera criminale, parlando anche del tentato omicidio di Antonino Defina, “che dava fastidio ai Bonavota nell’edilizia e si stava facendo un gruppo autonomo. L’omicidio non ebbe luogo. A Carmagnola come in Calabria si facevano le stesse cose. La famiglia Arone e il clan Bonavota sono la stessa cosa: stessa fazione, stessa potenza. E guarda caso in questo paese ci sono tradizioni della Calabria. Compresa l’affruntata, che è una manifestazione religiosa tipicamente calabrese”. Salvatore Arone era considerato una santità in quel territorio: “era portato come Padre Pio, un segno di rispetto alla figura apicale della’ndrangheta. Il termine Padre Pio l’ho aggiunto io per essere più chiaro. Erano così devoti a questo signore come se fosse sua santità. E dai Bonavota ho sempre ricevuto sostegno, riconoscimento fino a quando non ho iniziato a collaborare”.
“L’ispettore capo corrotto e i pizzini dell’avvocato”
L’ex boss, che sta deponendo attualmente in Rinascita Scott, nel processo Carminius ha parlato di un ispettore capo della penitenziaria, definendolo un corrotto, un uomo totalmente nelle mani della famiglia Arone e di cellulari consegnati ad un affiliato al clan Bonavota, prestanome anche degli Arone che stava in cella con lui quando era detenuto nel carcere di Torino. Ha svelato il nome e cognome di un avvocato che “da un paesino piccolo del Vibonese, se n’è venuto su a Torino con la valigietta di cartone. Il padre gli era stato fatto sparire per lupara bianca, era in un contesto mafioso”. In quel periodo era il suo avvocato e l’aveva scelto perché così gli era stato suggerito in una lettera, “potevo veicolare dall’interno all’esterno e dall’esterno all’interno delle informazioni che mi arrivavano da parte dei Bonavota e da parte degli Arone. Per la verità il legale si occupava in particolare di veicolare i saluti di Antonio (Serratore ndr), mi chiedeva se avessi ricevuto il vaglia e se avessi bisogno di soldi ed io gli rispondevo che non c’era bisogno perché venivano a portarmeli dei miei familiari. E’ uso comune tra gli affiliati aiutarsi: “io però non appartenevo al loro gruppo ma al mio. Avevo dato aiuto militare ai Bonavota e per questo si interessavano a me, ma non ne avevo bisogno perché avevo il mio gruppo. Dicevo dunque all’avvocato di rassicurarli”. Il legale mandava a Mantella pizzini e messaggi vocali e nei pizzini si parlava di estorsioni e droghe e la stessa cosa faceva il collaboratore di giustizia tirando fuori da sotto la cinghia un bigliettino, che consegnava all’avvocato e questi ad Antonio Serratore. “Tramite l’avvocato ho impegnato Antonio Serratore di mandare una persona ad una casa famiglia, tanto è vero gli dissi pure di andare a scassare una casa popolare lì a Torino per metterci dentro una persona, una giovane mamma, una ragazza madre, non faccio nome e cognome, perchè non voglio metterla a rischio”.