di Felice Foresta* – I processi sono tentacoli. Ai quali nessuno può sottarsi. Non può farlo la persona che ne è attinto. E che deve difendersi nel processo e, forse, anche dal processo. Non può farlo il Giudice che ha l’onere di emettere un verdetto quanto più aderente alla verità acquisita nel processo. Non può farlo chi rappresenta la pubblica accusa che ha l’onere di sostenere la sua posizione nel processo, e nel reticolo del dato probatorio che è stato acquisito e che intende devolvere alla delibazione giudiziale. Non può farlo il Difensore che ha l’onere non solo tecnico, ma anche umano e sociale, di accompagnare il proprio assistito lungo un cammino, quello del processo, che ex se spesso è già un Golgota.
I processi, però, non sono soltanto perimetri disegnati da un codice. Non appartengono agli altri. Appartengono a tutti. Singoli e collettività. Perché sono – dovremmo ricordarlo tutti, addetti ai lavori e, ancor di più, opinione pubblica – fatti umani. Hanno per oggetto fatti umani. Conducono a decisioni che si risolvono in fatti umani. Siano essi assoluzioni o condanne.
I processi, però, non sono soltanto perimetri disegnati da un codice. Non appartengono agli altri. Appartengono a tutti. Singoli e collettività. Perché sono – dovremmo ricordarlo tutti, addetti ai lavori e, ancor di più, opinione pubblica – fatti umani. Hanno per oggetto fatti umani. Conducono a decisioni che si risolvono in fatti umani. Siano essi assoluzioni o condanne.
Se così è, non c’è dubbio – ma ogni avversa considerazione è ben accetta – che il carico di umanità che un avvocato si porta dietro durante un processo sia incommensurabile e incomparabile. Perché un avvocato, prima di ogni cosa, è un uomo. Nelle sue intimità nascoste. Siano esse asperità o accoglienze. Fragilità o sensibilità.
Il peso di umanità che un avvocato si porta dietro si attorciglia dentro, fino a giù, tra le pareti dell’anima. Là dove residua per chiunque, ove si tolga anche la crosta più riottosa e impenitente, uno scampolo di quella stessa essenza dell’umano che ogni avvocato si sforza di salvaguardare. Senza condividere le condotte che quell’essenza hanno opacizzato.
Questo peso è un sentiero parallelo e, spesso, il fato si accosta e lo fa condividere con un altro avvocato. E non solo sotto il profilo squisitamente tecnico o esperienziale, ma, più propriamente, umano.
E così quando muore un avvocato, per gli altri avvocati, si spezza qualcosa. Qualcosa in più di un presidio tecnico, di un amico o, semplicemente, di un Collega.
Quando muore un avvocato, per gli altri avvocati, si erode un pezzo di se stessi. E, quindi, un pezzo di quell’umanità che li accompagna nel loro andare quotidiano. Forse, non si avverte neppure quell’eradicazione. Però, è cosi. Quella mancanza circola in un io indifeso. Parrebbe una contraddizione in termini. Un avvocato dall’io indifeso. Parrebbe così, ma così non è.
Questa notte è morto un avvocato. Marinella Chiarella. Era donna ed era un signor avvocato. Ma, soprattutto, era quel carico di umanità in un sorriso dolce, in due occhi verde mare che portavano luce anche nella più tetra e senza finestre aula di un palazzo di Giustizia, nel gesto gentile di una donna che raccoglie nel suo grembo la grandezza di ogni donna.
Per quattro anni ho avuto la ventura di seguire insieme a Marinella un processo. Difendevamo persone diverse. Avevamo lo stesso obiettivo comune. L’esito favorevole per i nostri assistiti, certo. Quello che abbiamo, forse inconsapevolmente, inseguito era, però, altro. E forse un po’ più alto. Era dividerci quel peso di umanità. Non per disfarcene. Ma per preservarlo, custodirlo e farne una teca da cui attingere ogni qualvolta che ne avremmo avuto bisogno.
Quel peso sono stati i nostri dubbi, le nostre paure, la pagina di un fascicolo che non trovavi, l’ultima sentenza della Cassazione cui aggrapparci, l’annuncio di un ritardo ché sono in un’altra udienza, una domanda rimasta a metà fra la speranza e la coscienza. Quel peso di umanità era il mio errore e il suo rammendo. La mia memoria monca e la sua intelligenza viva. Quel peso di umanità era un’umanità consustanziale e mai ferita.
È morta Marinella. E adesso piango.
Questa notte non è morto un avvocato. Questa notte siamo morti in tanti. Perché, quando muore un avvocato, muore un pezzo di te stesso. Ma non solo.
Quando muore un avvocato Donna, muore un pezzo di tua madre. Di tua nonna. Di tua sorella e di tua moglie. E muore quell’umanità che non è un pretesto di vita. Ma è la stessa nostra stessa vita.
*Avvocato del Foro di Catanzaro
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