di Mario Meliadò – Sono i mesi in cui, fatalmente, vengono a essere ricordati i Fatti di Reggio. E Calabria7 l’ha già fatto, con un video incontro con Gianfrancesco Turano, giornalista reggino autore di un interessantissimo romanzo sul tema, Salutiamo, amico. In queste ore però emergono altre pagine – strettamente giornalistiche, stavolta – con le quali non ci si può non confrontare, a mezzo secolo dalla Rivolta: l’approfondimento di un altro giornalista di Reggio Calabria, Peppe Smorto (dal 2016 al 2019 vicedirettore di Repubblica) cui il Venerdì, il settimanale del quotidiano ormai gestito dal gruppo Exor, ha dedicato la sua copertina di ieri.
Ovviamente, di cose in dieci lustri ne sono accadute. E non per caso, in un reportage “polifonico” messo a segno proprio nella “sua” Reggio, si chiede Smorto: «Cinquant’anni dopo, è il tempo della riconciliazione?». Potrebbe esserlo: per quanto attiene alle vittime, ai torti ma forse ancor di più per «tutti gli indizi che mettono Reggio 1970 dentro la strategia della tensione». Perché su un dato, c’è poco da dubitare: ogni ricostruzione di quei tempi e di quegli episodi genera «due verità». Quella degli storici e quella ben diversa di “chi c’era”.
Ovviamente, di cose in dieci lustri ne sono accadute. E non per caso, in un reportage “polifonico” messo a segno proprio nella “sua” Reggio, si chiede Smorto: «Cinquant’anni dopo, è il tempo della riconciliazione?». Potrebbe esserlo: per quanto attiene alle vittime, ai torti ma forse ancor di più per «tutti gli indizi che mettono Reggio 1970 dentro la strategia della tensione». Perché su un dato, c’è poco da dubitare: ogni ricostruzione di quei tempi e di quegli episodi genera «due verità». Quella degli storici e quella ben diversa di “chi c’era”.
CHI C’ERA
«Ogni persona sopra i 60 anni ha un ricordo diretto», evidenzia l’autore dell’inchiesta, sùbito dando la “pennellata” che restituisce alcune fra le mille contraddizioni di giorni impossibili da ignorare per il resto del Paese, ma evidentemente molto molto facili da scordare: «Fu una rivolta popolare e interclassista, anche gli agrari e i costruttori del sacco della città sposavano gli scioperi generali, chiudevano i campi e i cantieri».
«La repressione fu vergognosa, lo Stato parlò solo con i fucili e gli ordini di comparizione», racconta ad esempio l’ex senatore del Msi Renato Meduri, certissimo che «quella della ‘ndrangheta dietro la Rivolta è una bugia». Ma c’è spazio pure per l’autodafé di un altro reggino “eccellente” della politica, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti: «Il Pci non capì: non era solo il capoluogo, protestava una città del Sud abbandonata e senza futuro».
E c’è l’ambientalista Nuccio Barillà, c’è quel “Granducato di Santa Caterina” fondato da neofascisti e partigiani insieme, Santo Versace che sposò sùbito la causa dei “Moti di Reggio”. C’è poi chi, come lo storico, docente e scrittore Fabio Cuzzola, contesta il computo delle vittime che non sarebbero tre ma 19: otto negli scontri, sei per il deragliamento della “Freccia del Sud” Palermo-Torino più i “cinque anarchici reggini” che hanno ispirato canzoni (è il caso di Domenico Bucarelli) e il suo libro-inchiesta. «Fu un’esecuzione camuffata da incidente, a opera di un Servizio deviato», è la verità di Cuzzola. E c’è chi, come il fotografo Silvio Mavilla, racconta della corresponsabilità di una tv di Stato che minimizzava, quando non taceva.
GLI “ALTRI”
Ma altrettanto – se non più – interessante è la ricostruzione di chi reggino non è, dall’esperto di politica internazionale Leonardo Tirabassi alla cantautrice folk Giovanna Marini, quella de I treni per Reggio Calabria, ballata che in realtà «è un reportage» di quanto accaduto a lei e agli operai che il 22 ottobre 1972 dal Nord scesero via rotaie in riva allo Stretto incrociando il proprio destino con ben otto bombe piazzate lungo il percorso e la fitta sassaiola che accompagnò il corteo aperto dai metalmeccanici delle Omeca.