Migranti: sfratto dalla Tendopoli di San Ferdinando senza soluzioni alternative

di Mario Meliadò – «L’Amministrazione comunale comunica ai signori ospiti che sono in atto le procedure di chiusura definitiva della tendopoli e che alla rimozione delle tende seguirà l’eliminazione definitiva di tutti i servizi presenti nella struttura. I signori ospiti sono, pertanto, invitati a individuare una nuova e diversa

soluzione abitativa». L’algida nota firmata dal Comune di San Ferdinando (sindaco, Andrea Tripodi) in assoluto non incarna una novità, visto che d’abbandono della Tendopoli sanferdinandese in sé e del “modello-tendopoli” per migranti in generale si parla da tempo, e già due ordinanze sindacali erano state emanate in questa direzione, l’ultima delle quali nel febbraio dell’anno scorso.

Stavolta, però, le disposizioni sembrano avere un quid aliquis davvero pregnante:  a brevissimo le tende saranno smantellate, e con le tende anche i servizi nell’area. Se questi contenuti saranno rispettati, sarà dunque realmente impossibile continuare a vivere nella “nuova Tendopoli” di San Ferdinando.
E qui arriva il bello, anzi il brutto: che i braccianti extracomunitari così preziosi – e così squallidamente a infimo costo – per raccogliere gli agrumi nella Tirrenica reggina vengono congedati bruscamente ma senza che prima, come logica e minimo senso d’umanità vorrebbero, siano stati individuati alloggi alternativi di mano pubblica.

Regione e Ministero dell’Interno, in particolare, dovranno mettersi seriamente una mano sulla coscienza se questo accadrà: prima della Tendopoli c’è stata infatti la Baraccopoli, prima della Baraccopoli l’Opera Sila, la Cartiera e mille altri orridi ghetti in cui il concetto di vivibilità toccava il suo grado più basso. Non è dunque difficile intuire come finirà: altre Cartiere, altre baraccopoli. Verosimilmente, altri morti per nuovi incendi o per nuove problematiche ricollegabili a servizi e sicurezza inesistenti. Come accadde a Becky Moses il 27 gennaio del 2018; la stessa sorte capitata a Suruwa Jaiteh (vedi foto) il 2 dicembre dello stesso anno; una morte orribile, come quella di Moussa Ba il 15 febbraio del 2019 e, pochi giorni dopo, il 21 marzo sempre dello scorso anno, come per il triste destino che investì Sylla Noumo…

Né tantomeno si può anche solo provare a indirizzare i migranti verso Cas o strutture di questo genere, perché il nodo è uno solo: questi giovani extracomunitari debbono vivere nei pressi del loro “luogo di lavoro”, cioè gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro. Fiondarli in Aspromonte o sulla Jonica reggina, a mo’ di mera esemplificazione, sarebbe solo una presa in giro che non risolverebbe minimamente il loro problema abitativo.

Del resto, fanno notare dall’Usb, «quando nel marzo 2019 l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva annunciato e realizzato a furor di telecamere lo sgombero della Baraccopoli – rilevano dal sindacato di base – eravamo stati pressoché i soli a denunciare la miopia politica di sostituire un ‘ghetto’ con un ‘campo’. Ci sembrava una scelta affatto lungimirante, dal momento che le istituzioni e la classe politica hanno il dovere di compiere decisioni coraggiose, in grado d’apportare trasformazioni sociali di lungo respiro».

E meno male che non ha avuto sèguito l’idea d’installare, in luogo della Tendopoli, i famigerati container. Solo che il punto rimane quello: serve, per usare le parole di Peppe Marra dell’Usb, una «soluzione abitativa

dignitosa» che finora «mai è stata fornita, ma neppure agevolata, dalle Istituzioni preposte».

Per inciso, Usb e altre forze sociali un’idea alternativa l’avevano avanzata per tempo: era quella dell’insediamento abitativo diffuso, in un’area – la Tirrenica reggina – che secondo le stime degli addetti ai lavori sarebbe afflitta da una tale superfetazione alloggiativa che nella Piana di Gioia Tauro rimarrebbero sfitti appartamenti per qualcosa come 30mila persone.

Perché questi alloggi restano vuoti? Perché i proprietari hanno paura d’affittare a inquilini oggettivamente economicamente deboli e dalle condizioni lavorative quantomai evanescenti e precarie.
Per consentire realisticamente che questi lavoratori dell’agrumicoltura, preziosissimi per l’economia agricola calabrese, possano occupare quelle unità abitative servirebbe una “garanzia istituzionale” da parte della Regione o del Ministero, che dovrebbero andare a far da mallevadori in modo che il singolo locatore non si senta solo e mandato allo sbaraglio, ad affittar casa a qualcuno che probabilmente non pagherà mai.

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