Andrea Mantella è guarito dal Covid ed è tornato a parlare. Lo ha fatto collegandosi da un sito riservato con l’aula bunker di Torino, chiamato a testimoniare nel processo di ‘ndrangheta scaturito dall’operazione “Carminius-Fenice” gli affari e le attività dell’articolazione piemontese del clan Bonavota di Sant’Onofrio con ramificazioni nel Torinese e, in particolare, a Moncalieri e Carmagnola. “Se sono degno di essere definito collaboratore di giustizia lo decideranno gli onorevoli giudici. Io mi sono pentito perché ho capito gli errori che ho fatto”. È quanto ha dichiarato dal collaboratore di giustizia vibonese, ex boss dell’ala scissionista del clan Lo Bianco di Vibo Valentia che da pentito ha contribuito alla nascita del maxi-processo denominato “Rinascita Scott“. “Mandai dei killer a Torino per uccidere Antonino Defina, che dava fastidio ai Bonavota nell’edilizia e stava creando un gruppo autonomo”, ha svelato nel corso della sua deposizione Mantella ricostruendo un episodio di qualche anno fa. “L’omicidio non ebbe luogo – precisa il pentito – perchè gli esecutori furono fermati e controllati da una pattuglia delle forze dell’ordine. In Calabria uccidemmo, Domenico Di Leo, il suo braccio destro. Lo massacrammo a colpi di kalashnikov sotto casa sua. Io rimasi in auto, spararono due miei discepoli che volevano imparare il mestiere. Defina mi sfuggì parecchie volte dalle mani, era più intelligente di lui”.
“Salvatore Arone è come Padre Pio”
“Salvatore Arone è come Padre Pio”
Mantella ha quindi raccontato come la ‘ndrangheta vibonese si è infiltrata nel tessuto economico e sociale di Torino e dintorni. “A Carmagnola la famiglia Arone e il clan Bonavota sono la stessa cosa: stessa fazione, stessa potenza. A Carmagnola, come in Calabria, si facevano le stesse cose”, testimonia il pentito citando una manifestazione religiosa (l‘Affruntata) tipicamente calabrese e “guarda caso – aggiunge il collaboratore di giustizia – presente anche nel paese del Torinese”. Soffermandosi sui ruoli interni all’articolazione piemontese dei Bonavota, Mantella ha ribadito: “A Carmagnola il capo è Salvatore Arone. Lui rappresenta i Bonavota ed è rispettato come un santo o padre Pio”.
La ‘ndrangheta e il magistrato da colpire
Mantella, inoltre, ha riferito rispondendo alle domande dei pm della Direzione distrettuale antimafia “che la ‘ndrangheta voleva colpire un magistrato di Torino”. Una volontà – così come riportato dal Corriere.it – che il pentito vibonese fa risalire a un colloquio con Francesco D’Onofrio, ex militante di Prima linea condannato recentemente in Appello per associazione mafiosa. “D’Onofrio – racconta Mantella parlando dell’episodio avvenuto in galera nel 2013 – mi disse che aveva dell’astio nei confronti della magistratura torinese. Diceva che le Dda di Reggio e di Torino lo stavano rovinando e che, per questo bisognava prendere dei provvedimenti su alcuni magistrati, sia in Calabria che a Torino”. Presente in aula, come sempre, anche l’ex assessore regionale Roberto Rosso, imputato di voto di scambio politico-mafioso.
La guerra di mafia vinta dai Bonavota
L’ex boss ha raccontato anche il suo percorso criminale: da “picciotto” dei Lo Bianco fin “da ragazzino” fino a vero e proprio capo di un “gruppo militare autonomo” che si alleò con altre cosche, tra cui i Bonavota, in opposizione ai Mancuso. “La guerra di mafia è finita – sostiene – con la vittoria dei Bonavota. Hanno vinto sul campo. Non c’è trippa per gatti”. Per Mantella “i Lo Bianco furono quasi cancellati e i Mancuso furono messi in difficoltà”. Il collaboratore, che si è attribuito “tanti omicidi”, ha parlato di una “black list” di persone da uccidere. In due casi, però, non si fece nulla. Il primo fu quello di Rosario Petrolo, “che era all’ergastolo per la cosiddetta Strage dell’Epifania del 1991, diretta contro i Bonavota, dove morirono persone innocenti. Sapendo che forse gli stavano per dare un permesso premio, vennero da me e mi dissero: “Compare Andrea, due polli in un pollaio non ci possono stare: se esce devi ucciderlo”. Il secondo riguardava un boss “ma intervenne la “ndrangheta madre” e, dopo la loro mediazione, non intervenimmo”.
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