“Graviano e Filippone colpevoli, la pena dell’ergastolo va interamente confermata”. Questa la richiesta rivolta alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria (presidente Bruno Muscolo, a latere Giuliana Campagna) cui è pervenuto il procuratore generale di udienza, Giuseppe Lombardo, contro Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, per essere stati i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, fatto avvenuto il 18 gennaio del 1994 nei pressi dello svincolo autostradale di Scilla.
La requisitoria
La requisitoria
Dopo tre giorni di requisitoria, il procuratore generale, Giuseppe Lombardo, ha chiesto la conferma della condanna all’ergastolo “perché interamente colpevoli”, per il boss di Cosa nostra, Giuseppe Graviano e del boss della ‘Ndrangheta, Rocco Santo Filippone. Lombardo, contestando i motivi di appello dei difensori degli imputati, ha rivalutato le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, per evidenziare “l’interesse comune tra “‘Ndrangheta e Cosa nostra, diventate un’unica cosa”, di dare il via alla stagione delle Stragi degli anni ’90 voluta da Salvatore Riina, con le bombe a San Giorgio al Velabro, in via Fauro, a Roma, ai Georgofili a Firenze e in via Palestro, a Milano.
Soprattutto, Giuseppe Lombardo ha sottolineato “l’attacco mirato all’Arma dei carabinieri, con il duplice omicidio Fava e Garofalo (del gennaio 1994), e con i tentati omicidi dei carabinieri Silvio Ricciardo e Vincenzo Pasqua (del dicembre del 1993), Salvatore Serra e Bartolomeo Musicò (del febbraio del 1994), tutti commessi dal collaboratore di giustizia Giuseppe Calabrò a Reggio Calabria.
“‘Ndrangheta coinvolta nel tentativo di salvare Moro”
“Fu mio cugino Antonio Filippone – disse Giuseppe Calabrò – a consegnarmi il mitra Beretta M12 raccomandandomi di sparare solo con quell’arma”. Nel suo lungo intervento, il procuratore generale, ha ribadito “come la ‘ndrangheta sia stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro”.
Secondo quanto esposto dal rappresentante dell’accusa, “il capo scorta di Aldo Moro, Rocco Gentiluomo, originario di Santa Eufemia d’Aspromonte, scampò all’eccidio perché fu esentato dal servizio il giorno prima per decisione dei servizi di sicurezza, su richiesta dell’imprenditore boschivo Rocco Musolino, di Santo Stefano d’Aspromonte, morto incensurato nel suo letto”. Rocco Musolino, insieme ad altre persone, fu coinvolto nell’omicidio del boss Giorgio De Stefano, avvenuto il 9 novembre del 1977 in località ‘Acqua del Gallo’, in Aspromonte, in circostanze non ancora del tutto chiarite. “Personaggio informatissimo e dalle relazioni riservate, Giorgio De Stefano – ha sottolineato il Procuratore Generale – oltreché legato ai progetti eversivi di Licio Gelli, aveva acquisito un potere enorme negli equilibri del sistema criminale italiano, un potere che lo aveva disallineato rispetto alle altre famiglie di ndrangheta”.
“C’è una chiave di lettura sulle vicende degli anni ‘90: che passa sempre da Licio Gelli, il separatismo, le Leghe Meridionali” ha detto Lombardo, che ha poi aggiunto: “Nel 1981, viene controllata a Fiumicino una valigia di Maria Grazia Gelli, dentro cui si trovava un documento sottoposto a segretezza Nato, in cui si descrivono le dinamiche volute dagli americani per contenere l’espandersi dei movimenti comunisti in Italia e in Europa, da contenere. E, a seconda della circostanza, usare azioni violente o non violente. Ne parla anche Saverio Morabito, di Platì, collaboratore di giustizia ed ex killer dei Papalia”.
Il segnale di dissenso contro le politiche di Moro
“In quel documento – aggiunge il Pg – gli americani raccomandano di utilizzare contro l’insorgenza comunista anche il terrorismo di sinistra. Un segnale di aperto dissenso – ha sottolineato ancora Giuseppe Lombardo – contro le politiche volute da Aldo Moro, prima, dinamiche subite anche da Craxi negli anni ’80, quando comincia a mettere limiti all’azione degli Usa in Italia”.