“Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto”, carcere confermato per il boss Alvaro

I giudici della seconda sezione penale della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso presentato dalla difesa Alvaro contro la decisione del Riesame di Roma

Confermata dalla Cassazione la custodia cautelare in carcere per il boss Vincenzo Alvaro. I giudici della seconda sezione penale della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso presentato dalla difesa Alvaro contro la decisione del Riesame di Roma dello scorso giugno sulla custodia cautelare disposta nell’ambito della maxi inchiesta ‘Propaggine’ della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e della Dia contro la prima ‘locale’ ufficiale di ‘ndrangheta nella Capitale che ha portato all’arresto di una quarantina di persone, tra le quali l’altro boss, Antonio Carzo. Secondo le indagini, coordinate dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò e i pm Giovanni Musarò, Francesco Minisci e Stefano Luciani, a capo della ‘ndrina di Roma c’erano Alvaro e Carzo: proprio Carzo nell’estate del 2015 aveva ricevuto dalla casa madre della ‘ndrangheta l’autorizzazione per costituire una locale nella Capitale. “Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto”, dicevano in un’intercettazione.

‘Ndrangheta a Roma

‘Ndrangheta a Roma

“Nella ricostruzione operata dall’ordinanza impugnata la locale romana, totalmente ‘legittima’ in quanto costituita previa autorizzazione della Provincia, aveva una sua piena autonomia operando nella Capitale dove venivano commessi i reati fine che ne erano la stessa ragione di sussistenza e dove veniva programmata e ideata l’associazione anche – scrivono i supremi giudici nelle motivazioni in merito all’accusa di 416bis – con riferimento al programma delittuoso principalmente volto all’inquinamento del tessuto economico-imprenditoriale”. Per la Cassazione “come chiaramente emerge dal tenore delle intercettazioni telefoniche e dai singoli fatti ‘sintomatici’ puntualmente indicati nell’ordinanza cautelare e nel provvedimento oggetto di ricorso, la locale romana è stata ‘costituita’ con l’evidente beneplacito della casa ‘madre’ la cui fama ed il cui prestigio non possono essere messi in discussione (…) con l’ovvia conseguenza che il modo di essere delle penetrazioni in variegati settori economici fosse per un verso finalizzato alla ‘occupazione’ dei diversi settori presi di mira, mentre sotto altro profilo è proprio quel prestigio e quelle modalità di occupazione a rendere emblematico l’impiego di una metodologia tipica di quella consorteria e non certo ignota a quanti con essa avevano a che fare”.

Business, ma di basso profilo

Secondo i giudici di piazza Cavour risulta “emblematico il rapporto ‘non conflittuale’ che la locale intendeva stabilire con altre organizzazioni criminali insistenti sul territorio romano proprio per consentire un’attività la meno appariscente possibile di penetrazione e di controllo di settori sempre più vasti della economia cittadina, in aderenza, per come riferito dai collaboratori di giustizia, anche con la scelta deliberata dalle stesse storiche organizzazioni criminali di stampo mafioso, al fine di evitare una conflittualità che poteva nuocere agli affari”. “In questo quadro di riferimento – si legge nelle motivazioni – è evidente come non si richiedessero espliciti atteggiamenti di eclatante intimidazione, di coercizione o comunque di violenza in quanto l’obiettivo non era e non è quello della sopraffazione fisica o morale di quanti venivano in contatto con i vari personaggi della locale, ma all’inverso, quello di consentire ‘appropriazione di settori economici che escludessero di fatto un fisiologico libero mercato a tutto vantaggio di una gestione ‘seppur settoriale’ di tipo ‘monopolistico’. Il modello di insediamento dell’associazione storica di riferimento si adatta, pertanto, alla nuova realtà sociale ed economica di riferimento, venendo, pertanto, ad arricchirsi di un ulteriore contenuto, allo stesso modo invasivo e pervasivo”. (Adnkronos)

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