Omicidio Di Leo nel Vibonese, annullata sentenza di Petrini: processo da rifare per Fortuna

di Mimmo Famularo – Condannato a trenta anni in primo grado, assolto dal giudice Marco Petrini in appello per non aver commesso il fatto e, adesso, il nuovo colpo di scena in Cassazione. Sarà necessario un nuovo processo per fare piena luce sull’omicidio di Domenico Di Leo nel luglio del 2004. La Suprema corte ha annullato la sentenza di assoluzione emessa dai giudici della Corte d’assise d’appello di Catanzaro nel febbraio del 2019 nei confronti di Francesco Salvatore Fortuna, 40 anni, di Sant’Onofrio, ritenuto dagli inquirenti esponente di spicco della famiglia di ‘ndrangheta dei Bonavota, una delle più potenti del Vibonese. Al centro della vicenda giudiziaria, che si trascina ormai da oltre tre anni, c’è l’efferato omicidio di ‘ndrangheta compiuto nel centro abitato di Sant’Onofrio. Secondo l’accusa Fortuna, considerato uno dei killer del clan, faceva parte del commando che nella notte tra il l’11 e il 12 luglio del 2004 trucidò  “Micu i ‘Catalanu”, il soprannome con il quale era conosciuto in paese Domenico Di Leo.

L’assoluzione in Corte d’assise d’appello

L’assoluzione in Corte d’assise d’appello

A “incastrare” Fortuna era stato l’esame del Dna su un guanto di lattice rinvenuto nell’autovettura utilizzata dai killer ed alla cui guida quella notte c’era Andrea Mantella, l’ex boss scissionista oggi prezioso collaboratore di giustizia della Dda di Catanzaro che con le sue dichiarazioni ha contribuito a fare scattare l’operazione “Conquista” contro il clan Bonavota. Le analisi eseguite su quel guanto di lattice in pratica hanno consentito di isolare un Dna che, comparato con il profilo genetico dell’imputato, sembrava aver dato completa sovrapponibilità. Una tesi smontata dalla clamorosa sentenza emessa nel febbraio del 2019 dalla Corte d’assise d’appello di Catanzaro presieduta dal giudice Marco Petrini (oggi imputato a Salerno per corruzione in atti giudiziari) che, accogliendo le argomentazioni della difesa rappresentata dagli avvocati Salvatore Staiano e Sergio Rotundo, ha assolto Fortuna per non aver commesso il fatto. I legali dell’imputato avevano molto insistito sul fatto che l’esame fosse “scientificamente non esatto” poiché “non è stata applicata la procedura prevista e non sono stati rispettati i protocolli internazionali”.

La Cassazione annulla il verdetto

Una sentenza clamorosa contro la quale la Procura generale di Catanzaro ha fatto ricorso in Cassazione. La prima sezione penale presieduta dal giudice Giuseppe Santalucia ha spiegato in 24 pagine i motivi per i quali il processo a Fortuna va rifatto. Tra i punti fondamentali sviluppati dai giudici della Suprema corte c’è la certificata attendibilità del pentito Andrea Mantella che quella notte era presente sulla scena dell’agguato e ha confessato il suo coinvolgimento diretto nell’omicidio di Domenico Di Leo “fornendo un resoconto degli accadimenti criminosi connotato da univocità e da solidità probatoria”. La Cassazione ha smontato punto per punto la sentenza di assoluzione emessa dal giudice Petrini e sulla questione del Dna ha precisato: “Non assumono un rilievo determinante, in senso favorevole all’imputato Francesco Salvatore Fortuna, le conclusioni alle quali perveniva il perito nominato nel giudizio di primo grado, la dottoressa Anna Barbaro, che si esprimeva in termini non decisivi sul reperto n. 6, su cui era stato individuato il profilo genotipico sottoposto al suo vaglio, per l’esigua quantità di DNA su cui aveva svolto gli accertamenti che gli erano stati delegati. L’assunto processuale sostenuto dalla Corte di assise di appello di Catanzaro, secondo cui le conclusioni della dottoressa Anna Barbaro inficiavano la valenza corroborativa del reperto n. 6, che aveva quale scopo processuale quello di riscontrare la chiamata in correità effettuata dal collaborante Andrea Mantella nei confronti dell’imputato Francesco Salvatore Fortuna, non poteva essere affermato in termini generali, postulando un esame analitico delle conclusioni alle quali era giunto il perito, con cui nella sentenza impugnata non ci si confrontava”. Da qui l’accoglimento del ricorso presentato dalla Procuratore generale di Catanzaro. Si torna quindi in Corte d’assise d’appello ma stavolta a giudicare Fortuna non ci sarà più Marco Petrini ma un’altra sezione che dovrà tenere conto dei principi appena enunciati dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione.

L’agguato e le dichiarazioni dei pentiti

Le indagini, coordinate dall’allora procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro Giovanni Bombardieri e dal sostituto procuratore Camillo Falvo (oggi capo della Procura di Vibo), sono partite dal taglio di mille ulivi risalente al 2011 a titolo di estorsione ai danni di una cooperativa con scopi benefici gestita anche da religiosi a Stefanaconi, conclusasi con l’arresto dei vertici del clan dei Bonavota. Fortuna, finito in manette il 13 gennaio 2016, era stato “incastrato” dai guanti di lattice che comparati con il suo dna hanno consentito a inquirenti e investigatori di fare quadrato su uno degli omicidio più efferati commessi nel Vibonese negli ultimi venti anni. All’arresto hanno anche contribuito le dichiarazioni dei collaboratore di giustizia Raffaele Moscato e Andrea Mantella che hanno raccontato come Fortuna era solito nascondere in tasca i mozziconi di sigaretta perché nessuno potesse risalire al suo dna. L’attività di indagine ha permesso di ricostruire tutta la vicenda che ha portato all’eliminazione di Di Leo, divenuto “pedina” scomoda per il suo clan. L’agguato fu compiuto nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 2004 in via Tre Croci, nel centro abitato di Sant’Onofrio. La vittima stava rincasando a bordo della sua Microcar quando venne investito da una tempesta di fuoco. Nei suoi confronti furono sparati colpi di fucile a pompa caricato a pallettoni e di kalashnikov. “Micu i Catalanu” non morì subito ma, agonizzante, fu trasportato in ospedale dove giunse cadavere.

I moventi dell’omicidio

Non sarebbe stato un unico movente a determinare il suo omicidio. Le frizioni che, in quel determinato periodo storico, erano emerse all’intero del clan Bonavota e che portarono all’eliminazione di diversi suoi componenti e il fatto che Di Leo avrebbe offeso uno dei Bonavota, intrattenendo una relazione sentimentale con la cugina, sarebbero stati solo alcuni dei motivi per i quali Di Leo andava fatto fuori. Alla base del delitto c’era molto di più: c’erano interessi economici e per gli inquirenti determinante sarebbe stato l’episodio che si era verificato nella zona industriale di Maierato immediatamente prima dell’omicidio, quando Di Leo aveva “cacciato” gli operai che, per conto di Domenico Bonavota, dovevano effettuare gli scavi per la realizzazione di un bar da intestare alla moglie di Nicola Bonavota. La vittima, inoltre, era ritenuta responsabile del collocamento di un ordigno che aveva distrutto una concessionaria di autovetture ubicata allo svincolo autostradale di Sant’Onofrio. E poi c’era il timore che Di Leo potesse porre in essere azioni nei confronti di altri esponenti del clan, in ragione della sua caratura criminale e della “voglia” che stava maturando di imporsi nell’ambito della consorteria e sul territorio.

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