di Felice Foresta* – 17 giugno 1983. Le ultime vere vacanze da studente sono iniziate da poco. Un altr’anno ci sono gli esami di maturità. E adesso, allora, voglio godermele fino in fondo, le mie vacanze. Oggi è pure il mio compleanno. Sto ancora frugando fra gli umori della notte e dei suoi elfi. Sogni interrotti e libri da leggere. Entra di colpo mia sorella, devota indefessa del giornale radio, nella stanza dove un filo di sole ha già vinto le resistenze di una serranda anarchica. È agitata, mia sorella. Sembra quasi confusa. È, soprattutto, addolorata. Quasi ne fosse coinvolta. Hanno arrestato Enzo Tortora, mi dice. Non ci posso credere. Sarebbe legato alla camorra. O a qualche sua brutta storia. Enzo Tortora? Le chiedo, mentre impasto sentimenti contrapposti. Ma che dici! La insulto quasi. Mia sorella non ha mai scherzato sulle piaghe del dolore, però. E poi rimane zitta. E io capisco che è vero. Non so se fossi, in quel momento, più dispiaciuto che offeso. Può essere che Tortora, Enzo Tortora, il volto buono del venerdì in tv, quello del vicino di casa, il giornalista di una domenica sportiva romantica e mite, sia un menzognero, un delinquente, un camorrista?
Faccio fatica a mettere ordine ai miei pensieri. Poi mi dico non è vero. Non può essere vero. Tutti sapete com’è andata a finire. Quel 17 giugno 1983 in Italia, in quell’Italia che qualche anno dopo si sarebbe rivelata affamata di vendetta, ingorda di processi e gogne in tv, in fervida attesa di una nemesi da Porta Portese (già come la rubrica di Portobello, il programma di Enzo Tortora), forse si sono voltate le spalle alle Giustizia. Quel 17 giugno 1983, in Italia, si è masticato, con un sadismo ripugnante e sconosciuto, il piacere acre di vedere con le manette ai polsi una persona che non ti saresti mai aspettato. Perché anche questa è trasgressione. E, si sa, la trasgressione fa gola a tutti. Quel 17 giugno 1983 dei miei 17 anni, forse, ho preso il bivio. E, forse senza saperlo, ho deciso di essere, da grande, un avvocato. Ebbi modo, qualche anno fa, di conoscere la moglie di Enzo Tortora impegnata in una battaglia, insieme all’Unione delle Camere Penali Italiane, per la giustizia e la libertà. Le raccontai tutto. Del mio risveglio e del mio bivio. Non disse nulla. Solo grazie, e le spuntò una lacrima.
Faccio fatica a mettere ordine ai miei pensieri. Poi mi dico non è vero. Non può essere vero. Tutti sapete com’è andata a finire. Quel 17 giugno 1983 in Italia, in quell’Italia che qualche anno dopo si sarebbe rivelata affamata di vendetta, ingorda di processi e gogne in tv, in fervida attesa di una nemesi da Porta Portese (già come la rubrica di Portobello, il programma di Enzo Tortora), forse si sono voltate le spalle alle Giustizia. Quel 17 giugno 1983, in Italia, si è masticato, con un sadismo ripugnante e sconosciuto, il piacere acre di vedere con le manette ai polsi una persona che non ti saresti mai aspettato. Perché anche questa è trasgressione. E, si sa, la trasgressione fa gola a tutti. Quel 17 giugno 1983 dei miei 17 anni, forse, ho preso il bivio. E, forse senza saperlo, ho deciso di essere, da grande, un avvocato. Ebbi modo, qualche anno fa, di conoscere la moglie di Enzo Tortora impegnata in una battaglia, insieme all’Unione delle Camere Penali Italiane, per la giustizia e la libertà. Le raccontai tutto. Del mio risveglio e del mio bivio. Non disse nulla. Solo grazie, e le spuntò una lacrima.
* Avvocato del foro di Catanzaro