di Massimo Gimigliano* – Io non so dove il nuovo Tribunale mediatico dell’inquisizione (che agita tanta TV) abbia studiato e cosa abbia studiato per fare giornalismo sociale, d’impegno civile. Penso che i servizi raffazzonati sulla nostra regione degli ultimi tempi farebbero rabbrividire Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Oriana Fallaci, Eugenio Scalfari e tanti altri giornalisti di chiara fama. Sono frutto di faciloneria, di mancanza di approfondimenti, di ignoranza della sociologia criminale e dell’antropologia culturale. Sono inutile celluloide che si contorce nel vuoto torricelliano dell’indagine, mirano all’effetto e non alla causa degli avvenimenti, cercano solo il consenso pubblico, come l’ape che cerca la corolla solo per succhiarne il nettare. E’ facile parlare di mafia e di ‘ndrangheta, di consorterie criminali e di affiliati, è meno facile spiegare il perché di tanto dramma, di tanta diffusa illiceità, il perché siamo di fronte ad una sciarada, ad un cerchio concentrico dell’inferno che solo Dante potrebbe aggiornare con il “novum” della patologia umana, da affiancare ai violenti ed agli omicidi.
Da cittadino di questa Repubblica vorrei un giornalismo critico (e non una puntata del Commissario Montalbano), desidererei che un servizio sulla ‘ndrangheta si raccordasse ad una mai risolta “questione meridionale”, alla trasformazione del “brigantaggio” dallo Stato preunitario in poi, alla questione agraria nata dopo la distruzione del latifondo e la trasformazione industriale, agli inutili espropri della legge Sila, agli studi economici quantitativi puntati sullo spaventoso divario tra Nord e Sud, alla disoccupazione da brivido, alla secolare emigrazione selvaggia che ci ha visti e ci vede abbandonati da tante giovani intelligenze, alle croniche scoperture delle piante organiche della magistratura in una terra affamata di giustizia e di legalità, alla stanchezza dei calabresi, all’impossibilità di vedere la luce in fondo al tunnel. Vorrei che si parlasse di uno Stato assente, disattento, che ha sempre trattato il Sud come un dente marcio, da estirpare, e non come il “figliol prodigo” da recuperare a tutti i costi.
Da cittadino di questa Repubblica vorrei un giornalismo critico (e non una puntata del Commissario Montalbano), desidererei che un servizio sulla ‘ndrangheta si raccordasse ad una mai risolta “questione meridionale”, alla trasformazione del “brigantaggio” dallo Stato preunitario in poi, alla questione agraria nata dopo la distruzione del latifondo e la trasformazione industriale, agli inutili espropri della legge Sila, agli studi economici quantitativi puntati sullo spaventoso divario tra Nord e Sud, alla disoccupazione da brivido, alla secolare emigrazione selvaggia che ci ha visti e ci vede abbandonati da tante giovani intelligenze, alle croniche scoperture delle piante organiche della magistratura in una terra affamata di giustizia e di legalità, alla stanchezza dei calabresi, all’impossibilità di vedere la luce in fondo al tunnel. Vorrei che si parlasse di uno Stato assente, disattento, che ha sempre trattato il Sud come un dente marcio, da estirpare, e non come il “figliol prodigo” da recuperare a tutti i costi.
Se un giornalista pensa di avere fatto uno “scoop” attraverso qualche immagine d’impatto emotivo e qualche intercettazione ambientale imitata, se ritiene che i calabresi abbiano un DNA diverso, forse può interessarsi di genetica “lombrosiana”, ma sicuramente deve cambiare mestiere perché, seguendo la stessa logica, giornalisti si nasce e non si diventa!