di Felice Foresta – Non ci avevo mai pensato, prima. Perché, forse, a Catanzaro, siamo abituati da sempre ad arroccarci alla stagione offesa del non pensarci. Sabato pomeriggio di un giugno tiepido e controverso. Nel cicaleccio indistinto di un passeggio accarezzato dal grecale e dal profumo di salmastro, decido di accodarmi a un andare che non conosco. Intravedo una sagoma di legno arrotondata. Una bobina per cavi imponenti. Mi ci siedo sopra. D’istinto. Ché mi pareva m’aspettasse. Sono davanti al porto di Catanzaro. Credo sia la prima volta che mi fermo qui davanti. Mi fermo, nel vero senso del termine. Quello che ti fa sentire parte. Di un qualcosa. Di un ambiente. Di un contesto. Sono davanti al porto di Catanzaro, e mi sembra di stare in un altrove. In una banchina incastonata da un racconto di Camus ad Algeri, o tra gli schizzi dell’angiporto di Honfleur. L’orizzonte ha gli stessi lineamenti castigati. Solo che, qui, l’oltre è Tracia. L’acqua ha un azzurro che sa di cielo, e rinnova il suo giuramento a se stessa. Increspandosi sugli aghi del tramonto, infrangendosi fra le stive del vecchio peschereccio bianco e azzurro, spizzicando la curiosità di chi mi guarda stranito e circospetto.
È la prima volta che mi pare di abitare un posto che non è quello mio naturale. Non fosse altro che per derivazione onomastica. È la prima volta che avverto di essere straniero – solo per collocazione fisica – nella mia città. È la prima volta che ho la percezione che Catanzaro, la mia città, sia una città di mare. Sia anche una città di mare. È la prima volta che ne incrocio gli odori, i ritmi e i riposi. Gli alambicchi e i riti. Le sfumature e le prospettive. Ecco le prospettive. Quelle sulle quali, da sempre, sento discutere, interrogarsi, flettersi. Magari elucubrare, inseguire, fantasticare. E, poi, drammaticamente svicolare. Ora che il porto di Catanzaro è una realtà e non solo un vociare nel groviglio incerto di discussioni storiche e senza storia; ora che il porto di Catanzaro è un’entità di pensiero e di persone; un’opzione, e non solo un indizio, ci si provi a fermare.
È la prima volta che mi pare di abitare un posto che non è quello mio naturale. Non fosse altro che per derivazione onomastica. È la prima volta che avverto di essere straniero – solo per collocazione fisica – nella mia città. È la prima volta che ho la percezione che Catanzaro, la mia città, sia una città di mare. Sia anche una città di mare. È la prima volta che ne incrocio gli odori, i ritmi e i riposi. Gli alambicchi e i riti. Le sfumature e le prospettive. Ecco le prospettive. Quelle sulle quali, da sempre, sento discutere, interrogarsi, flettersi. Magari elucubrare, inseguire, fantasticare. E, poi, drammaticamente svicolare. Ora che il porto di Catanzaro è una realtà e non solo un vociare nel groviglio incerto di discussioni storiche e senza storia; ora che il porto di Catanzaro è un’entità di pensiero e di persone; un’opzione, e non solo un indizio, ci si provi a fermare.
Come ho fatto io, ieri sera. Ci si provi a disegnare attorno un vero progetto di città. Un’identità che forse, un tempo, abbiamo avuto, e che ora abbiamo dissipato, perduto, smarrito. Una mappa di strategia condivisa. Lo si preservi e lo si migliori, il nostro porto. Il porto di tanti pescatori arresi. E lo si guardi come la pagina del libro che pensavi di aver saltato, e che, invece, è quella che ti apre un mondo. Perché, scriveva Italo Calvino nel suo straordinario “Le città invisibili”, di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. E io, ieri sera, mentre l’afrore prepotente del porto salpava verso rotte inconsuete, di risposte, ancora nascoste, ne ho lette tante. Ora tocca a noi togliere loro la polvere e la cera.