di Felice Foresta – È da qualche giorno che la nostra impazienza s’inarca lungo le corde di un vecchio brocardo. A maggio non devi cambiare il saio. Ammonivano i nostri padri. Ed è vero. Adesso, però, basta. Proprio quando, complici timidi indicatori, pare intravvedersi una scaglia di luce, vento e pioggia ci restituiscono all’immanenza grigia di un anno di lutto e di cattività. Il cielo umbratile gli da corda. E fa da contraltare alla nostra ingovernabile voglia di normalità. Ogni male, si sa, non viene, però, mai solo per nuocere. È, grazie al cielo, anche il reticolo di un humus di redenzione e di opportunità. E, allora, profittiamo di quest’ultimo rantolo d’inverno. Sforziamoci di guardarci, come abbiamo fatto sino ad ora. Senza schermi e senza infingimenti. Cogliamo l’attimo per fissarci ancora di più negli occhi. Ultimo argine della nostra anima al confino. E al confine. Di pettorine che nascondono non solo naso e bocca, ma anche un po’ di noi. Forse, la parte migliore.
Anonime o improbabili. Caste o maliziose. Le mascherine prima o poi le toglieremo. Non confonderemo più i nostri sentimenti. Specie quelli più biechi. Perché, in fondo, sono servite pure a questo. Nel solco lacerante di una vulnerabilità diffusa, le bautte ci hanno educato a una nuova inflessione. Ci hanno invitato, nostro malgrado, a esercitarci in una nuova sintassi. Salutare tutti. Anche chi, per convenzione o per convinzione, poco ci aggradava. È, forse, questo un lascito che non abbiamo colto. È, allora, servita a qualcosa in più del preservare e preservarci la politica di separatezza dall’altro? Credo di sì. Voglio vedere il bicchiere nella sua interezza. Pieno, anche se il vino è a metà. O, forse, anche più giù. Sì, ne sono convinto. Oltre a inventarci un nuovo lessico, quello degli occhi, abbiano imparato dell’altro. E così, magari, cederemo il passo alla cortesia. Sì, è – e, speriamo continui a essere d’ora in poi – proprio così. Un inconsueto precetto al rispetto della distanza fra le persone ci ha portato – e deve continuare – a fermarci. Allontanarci un po’, giusto quel metro, per far passare l’altro. È un gesto che sta diventando istintivo. Anzi è tornato a essere tale. E se proprio non ci siamo riusciti ancora, dobbiamo fare in modo che lo diventi. Che torni a essere prassi. Non dovuta ma naturale.
Anonime o improbabili. Caste o maliziose. Le mascherine prima o poi le toglieremo. Non confonderemo più i nostri sentimenti. Specie quelli più biechi. Perché, in fondo, sono servite pure a questo. Nel solco lacerante di una vulnerabilità diffusa, le bautte ci hanno educato a una nuova inflessione. Ci hanno invitato, nostro malgrado, a esercitarci in una nuova sintassi. Salutare tutti. Anche chi, per convenzione o per convinzione, poco ci aggradava. È, forse, questo un lascito che non abbiamo colto. È, allora, servita a qualcosa in più del preservare e preservarci la politica di separatezza dall’altro? Credo di sì. Voglio vedere il bicchiere nella sua interezza. Pieno, anche se il vino è a metà. O, forse, anche più giù. Sì, ne sono convinto. Oltre a inventarci un nuovo lessico, quello degli occhi, abbiano imparato dell’altro. E così, magari, cederemo il passo alla cortesia. Sì, è – e, speriamo continui a essere d’ora in poi – proprio così. Un inconsueto precetto al rispetto della distanza fra le persone ci ha portato – e deve continuare – a fermarci. Allontanarci un po’, giusto quel metro, per far passare l’altro. È un gesto che sta diventando istintivo. Anzi è tornato a essere tale. E se proprio non ci siamo riusciti ancora, dobbiamo fare in modo che lo diventi. Che torni a essere prassi. Non dovuta ma naturale.
Cedere il passo, e non solo alle signore, ma a tutti quelli che rispetto a noi meritano priorità, non è solo un gesto di bon ton. È un atto di rispetto e di cortesia. Una deferenza impropria per qualcuno, ma che appaga. Il legato di questa brutta storia – domani, sono certo, lo racconteranno – sarà questa piccola vena di galanteria che avevamo smarrito. Qualcuno lo imputava alla più becera conquista della parità di genere. Qualche altro, fagocitato dalla spasmodica corsa quotidiana, lo considerava un’inutile perdita di tempo. Tanto cosa vuoi che le importi? O, al massimo, cosa vuoi che mi importi? Essere considerato galante ha ancora senso? È un atto fuori tempo, e fuori dal tempo. Se proprio devo, è perché mi serve. Per conquistare qualcosa o qualcuno. Una primazia. O, solo, una certezza. E, magari, una ragazza. Se mai ancora le donne credono a chi cede loro il passo. E, invece, sì che ci credono ancora. A prescindere. Giovane o diversamente giovane. Italiana o d’oltre confine. Ricca o povera. Bella o brutta. E non ci credono solo le donne. Ci credono, pure, gli anziani che, purtroppo, la pandemia ha collocato nel saldo scontato e squallido delle statistiche.
Ci credono i bambini, perché a loro le favole insegnano che la gentilezza è il guscio del cuore. Ci credono gli stranieri, perché quella mano che cede loro il cammino è l’accoglienza che si fa atto e non cerimonia. Ci credono le tante donne dell’Est che accudiscono i nostri anziani, puliscono le nostre case, e vanno oltre le nostre ritrosie finto borghesi riportandoci, con il loro abbigliamento un po’ vintage e un po’ anni ’70, al tempo in cui la galanteria esisteva e resisteva ancora. E così, se Irina, una signora venuta da Oriente, capelli biondi Carrà e occhi tristi, sta per fermarsi prima di noi, anticipiamola. Perché sono convinto che lei, pur essendo più vicina di noi alla sua meta, si fermerebbe per farci passare. E quando vedrà che non ci muoveremo, si girerebbe, e ci sorriderebbe. Perché il rispetto delle regole è una preghiera laica, senza frontiere e senza bandiere. Prima delle regole facciamo che, nel nostro breviario, ci siano ancora le persone. E, allora, continuiamo a guardarci negli occhi, e a far passare prima gli altri. Anche quando questi giorni, cuciti sul rigurgito del dolore, saranno solo il simulacro di anime inquiete.