OPINIONI | “Tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta”. Rileggi e perdona

Si registra, oggi, una bellicosa recrudescenza giustizialista. Punitiva sino allo stremo. Sino a dove la pena non è più pena. Ma vendetta e rappresaglia
Felice Foresta

di Felice Foresta – “Tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta”. Sguscia tra le mani il libro che, presentato (rigorosamente via web) appena ieri, si affaccia già sul selciato della curiosità. Le pagine aperte a caso, e questa frase si staglia come una gemma. Capace di mantenere aperto un mondo, o di chiuderlo definitivamente. Il Padre Vostro dei Lou Palanca è un libro sul perdono. Meglio, è anche un libro sul perdono. Questa, però, non è una recensione. È solo una scintilla che quella frase ci consegna.

La primavera, come per incanto, sprigiona la sua forza dirompente. E fa luce. Anche sul silenzio che cade spesso sulle parole. Anche su quelle che, invece, dovrebbero camminarci a fianco. Come il perdono, appunto.

La primavera, come per incanto, sprigiona la sua forza dirompente. E fa luce. Anche sul silenzio che cade spesso sulle parole. Anche su quelle che, invece, dovrebbero camminarci a fianco. Come il perdono, appunto.

Non sappiamo se il perdono rechi con sé le stigmate di una rinuncia. Se vi sia attraccato il gancio che scioglie da qualcosa, e rimette in libertà. Di questa fascinazione pare sia stato irretito Omero. Parlane qui, però, è atto di presunzione e di inverecondia.
Pare, pure, che legata al perdono e al suo etimo sia la storia che conduce ad Aladino. Raccontano che un mago avesse raggiunto il confine estremo della Persia dove conobbe Aladino. Non apparve, però, soltanto un fanciullo. Al mago, quella sagoma, sembrò un profeta. Addirittura il vertice della giustizia. Il perdono, però, è itinerario dell’uomo più che di stregoni e fattucchiere. Parlarne in questi termini, più che di vaticinio, sa di evasione.
Sì di evasione. Perché, è inutile negarlo, oggi il perdono è pratica che ci appartiene poco. Un concetto evanescente. Un esercizio semantico. Traslato dalla nostra infanzia. Recuperato dagli anfratti opachi della memoria. Di quando, fanciulli senza maghi, andavamo, magari controvoglia, a dottrina.

Confessiamocelo senza infingimenti, e senza rancori. Del perdono abbiamo quasi paura. Adusi come siamo, in un’epoca che non conosce la terra di mezzo, a vedere agli opposti. O il bianco. O il nero. Chi deraglia va cassato. Chi sbaglia va punito. Senza remore e senza ripensamenti. Il tema del perdono richiama i primordi. Fa parte della storia dell’uomo. Di quella storia che abbiamo, ormai, pressoché dimenticata. È difficile tornare indietro. Recuperare la dimensione del dubbio, e del riscatto morale. Dare una seconda opportunità scompagina il nostro quieto vivere. E, forse, lo inquieta pure.
Il tema del perdono, lo ricorda la storia fiabesca di Aladino, è contiguo alla giustizia. Ne è essenza intima. Nascosta. Forse, troppo. Sino a scomparire.

Si registra, oggi, una bellicosa recrudescenza giustizialista. Punitiva sino allo stremo. Sino a dove la pena non è più pena. Ma vendetta e rappresaglia. La pena è pena se si ferma sulla soglia. Quella da cui s’intravede il perdono. O, almeno, il suo barlume.
La pena che s’infligge a un bambino che s’incaglia nel vezzo obliquo di una monelleria, o a chi incespica sul disvalore di una condotta inversa è un confino. Che è giusto delineare. Il suo alveo, però, deve rimanere socchiuso. Su un’idea e su un’ipotesi.
Perché punire senza perdonare annacqua il senso critico, e il dovere del perché.
Perché, altrimenti, i precetti non sono più precetti. Sono editti di una sconfitta collettiva. Perché, altrimenti, tutto diventa inutile quando non si vuole aprire la porta.

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