di Felice Foresta – Nell’iconografia del nostro ieri, la Pasqua ha sempre rappresentato una festa anfibia. Dilaniata tra la fede e l’inganno. Tra il dubbio e il sacrificio. Tra la morte e la vita. Ha fatto prevalere il desiderio ancestrale dell’uomo di affrancarsi da pensieri ultimi. E, magari, di governarne la direzione sotto l’egida del perdono.
La Pasqua – al netto di una speculazione dottrinaria che non ci compete, e senza arrogarsi posizione di garanzia alcuna – offre al colto e all’inclita infiniti rivoli di riflessione. Che, in questo tempo sospeso, paiono sovrapporsi per una – anch’essa non casuale – contiguità con i sentimenti che, da un anno a questa parte, coltiviamo come terreni di risulta. Il nostro Golgota lo stiamo lambendo un po’ tutti e la vetta, oltre la quale restituirci al lucore di una quotidianità, che abbiamo colpevolmente disdegnato e ignorato, è ancora nascosta nell’ombra. Sono due, però, le suggestioni intellettuali che, affette da un anelito di centralità e sofferenza, approdano a interrogativi che ci saremo posti, e chissà volte, e che, tuttavia, abbiamo schivato sulle soglie del nostro perbenismo morale e borghese. Traggono origine dal pretesto (il tradimento di Giuda) e dallo stesso etimo (l’aramaico pāsaḥ).
Interrogativi di Pasqua
Abbiamo davvero provato, a guardare la Pasqua, e prima ancora all’interno noi stessi, dall’angolo visuale di chi ha dato la stura, per diventarne capro espiatorio e occasione al tempo stesso? Abbiamo mai immaginato di riconoscere nell’atto di viltà più noto della storia dell’umanità il volto dei nostri piccoli tradimenti, dei sotterfugi di cui è lastricato il nostro sentiero, degli incesti di pensieri e parole con cui abbiamo ingravidato le nostre idee, i nostri convincimenti, e i nostri dettami intimi?
Il terreno è limaccioso, lo sappiamo bene. Ma una prospettiva di correzione, di cui tutti invochiamo l’affermazione quale l’ultimo attracco per una società alla deriva, deve transitare da un livello alto e altro. Da cui avere un approccio d’insieme. E, soprattutto, da cui imparare che il giudicare è un’esercitazione che non ci appartiene. Neanche quando, come per il caso del fedifrago più ambito da prefiche e da carnefici, la prova è smagliante, evidente e supera lo steccato di ogni ragionevole dubbio. Perché è proprio oltre quello steccato che incrociamo la nostra caducità e il nostro volgere all’errore. Se questo è, il secondo punto di domanda, che riempie di significato e significanza (l’etimo di pāsaḥ è passare oltre) lo stesso termine che, oggi, albeggia sulle nostre pastiere e sulle nostre uova, è la proiezione naturale e diacronica della nostra acrimonia.
Nel corso delle nostre esistenze siamo davvero mai passati oltre i tanti crepuscoli con i quali siamo stati abituati – e forse ci è anche piaciuto – a convivere per convinzione e per convenzione? Il cammino lungo il quale, ogni mattina, incrociamo l’altro, il diverso, il dolente, l’ultimo si fa sempre più ampio. Solcato sempre di più da personaggi scomodi con i quali veniamo a compromesso in una sorta di negoziato, di patto pilatesco non belligeranza. Più che con l’altro, però, con la nostra coscienza. Con quell’io che ci richiama, ci ammonisce e ci indaga. E dal quale, però, rifugiamo sotto l’alibi del vivere e del sopravvivere.
La Pasqua, però, è altro. Per chi crede e per chi no. Perché andare oltre il guado è un’operazione ardita, che non fa distinzione di censo e di casato, di scuola e di bottega.
Passare oltre non è un retaggio, o una scommessa. È un vasaio che plasma, leviga e modella. Se, però, l’argilla è buona, ed è pronta. E oggi, però, alla nostra argilla piace forse più specchiarsi nell’acqua che farsi incuriosire dalla roccia del Golgota.
Ecco, allora, che il tempo di Pasqua rimane ancora un tempo binario. In cui, prima ancora che passare oltre, dobbiamo scendere giù. Nel ventre molle delle nostre inquietudini e delle nostre menzogne. Per capire e per cercare. Per capirci e per cercarci.