Il sostituto procuratore generale di Catanzaro, Luigi Salvatore Maffia, ha chiesto al termine della sua requisitoria, la conferma del verdetto di primo grado nei confronti degli imputati condannati in primo grado al processo che mira a fare luce sulle presunte pressioni al collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso. Imputati diversi familiari stretti del pentito, quali il padre, la madre, il fratello, la zia e la compagna. E così, il pg Maffia ha chiesto 7 anni per Giuseppe Salvatore Mancuso, fratello di Emanuele; per il padre Pantaleone, detto “l’ingegnere”, ritenuto uno dei vertici dell’omonimo clan di Limbadi, la richiesta è stata di 4 anni, simile a quella della moglie, Giovannina Del Vecchio. Un anno e otto mesi sono stati invece invocati per Rosaria Rita Del Vecchio, zia del pentito. In primo grado era stata assolta la sorella di Emanuele Mancuso, Desiree Antonella, per la quale invece ora sono stati chiesti 3 anni e 6 mesi di reclusione; le altre assoluzioni avevano riguardato Giuseppe Pititto e Antonino Maccarone (con simile richiesta avanzata dalla Dda) nei confronti dei quali il verdetto non è stato appellato è così sono diventate definitive.
Le richieste del filone abbreviato
Le richieste del filone abbreviato
Subito dopo il filone che proveniva dal rito ordinario si è svolta l’udienza di quello scaturito dall’abbreviato che ha portato ad ulteriori due richieste di condanna da parte del sostituto procuratore generale Raffaela Sforza: la prima a carico dell’ex compagna di Emanuele Mancuso, Nensy Chimirri, a 4 anni, e di Francesco Pugliese a 6 anni di reclusione, quindi in perfetta aderenza con il primo giudizio che li aveva ritenuti responsabili dei reati contestati. La prossima udienza per entrambi i tronconi è fissata al 20 maggio con gli interventi del collegio di difesa e la sentenza.
Le accuse della Dda di Catanzaro
I provvedimenti dell’autorità giudiziaria erano scattati esattamente due anni fa, con gli imputati che si vedevano contestare a vario titolo i reati di violenza privata, tentata violenza privata, reati in materia di detenzione di armi, induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, evasione, favoreggiamento personale, procurata inosservanza di pena. L’arma utilizzata dalla famiglia Mancuso per tentare di dissuadere Emanuele Mancuso (assistito dall’avvocato Antonia Nicolini) dai suoi propositi di collaborare con la giustizia, secondo la Dda, sarebbe stata la figlia nata da poco. La minaccia, infatti, sarebbe stata quella di non fare più vedere la piccola al papà. Il messaggio era impresso in una fotografia che ritraeva la piccola in braccio allo zio, mentre la compagna gli scriveva: “Puoi tornare indietro, io ci sarò, come tutti”. L’intento di fare recedere il collaboratore sarebbe riuscito ai Mancuso per un brevissimo periodo di tempo: dal 20 maggio 2019 al 27 maggio successivo, quando il giovane era stato di nuovo interrogato dalla Dda di Catanzaro chiedendo di rientrare nel programma di protezione. (f.p.)