Previsto autunno nero per l’economia, 100mila imprese a rischio fallimento

Se il periodo più duro del Covid aveva messo a rischio oltre un’azienda su cinque, ma c’era stata una ripresa ai livelli prepandemia, ora il quadro è peggiorato

Mentre la politica è impegnata nel valzer delle alleanze e nel risiko dei collegi, limitandosi e programmi vaghi, il Paese reale ha ben altre preoccupazioni. È l’Italia dalle due facce, quella che chiacchiera e l’altra che produce. Così proprio nel mezzo del balletto tra Calenda e Letta , è piombata la bocciatura dell’agenzia di rating Moody ’s che ha rivisto al ribasso, da stabile a negativo, il giudizio sul nostro Paese. I partiti non se ne sono nemmeno accorti. Il Tesoro ha storto appena il naso dicendo che «è opinabile», ma sul mondo imprenditoriale ha avuto l’effetto di una doccia fredda. È il segnale che i mercati hanno fiutato l’aria di tempesta. Per settembre è attesa la revisione del rating sul debito che è il tallone d’Achille dell’Italia e allora saranno davvero guai. Perché i compiti (leggi e riforme) per ottenere i soldi del Pnrr, devono procedere di pari passo con il rientro del debito. D’altronde non bisogna essere usciti dalla London School of Economics, per prevedere un autunno da incubo. Nessuno crede più ad una rapida soluzione della guerra in Ucraina, e questo significa che continuerà la spirale dei costi energetici. È vero che la dipendenza dal gas della Russia è passata dal 40% al 25% sul fabbisogno complessivo, ma tale sostituzione non arriverà prima della fine del 2023. Nel frattempo, il nostro Paese dovrà fare i conti con una bolletta energetica che peserà su famiglie e imprese e con i tagli ai consumi.

Aumento dei prezzi prosciuga i salari

Aumento dei prezzi prosciuga i salari

Le misure di risparmio, volontarie per le amministrazioni comunali, potrebbero diventare obbligatorie. L’aumento dei prezzi genera inflazione, prosciuga i salari, e rende l’accesso al credito più caro e difficile. A questi temi esogeni si aggiungono quelli figli di una politica raffazzonata: il pasticcio del super bonus del 110% che blocca i lavori e mette sul lastrico le imprese mentre le amministrazioni hanno smesso di pagare i fornitori. Dulcis in fundo c’è una legge di bilancio da effettuarsi praticamente a cassa vuota. Con l’ultimo decreto aiuti prima del voto, peraltro portato dai 13 miliardi iniziali fino a quota 17 miliardi, è stato raschiato il fondo del barile. Sono state utilizzate tutte le risorse di bilancio. Il premier Mario Draghi, proprio per non
compromettere i saldi concordati con la Ue, si è sempre opposto a scostamenti di bilancio. E poteva farlo perché favorito da un andamento dei conti pubblici migliore delle attese. In autunno però la situazione sarà diversa e i tecnici di Bruxelles faranno le pulci a ogni voce di spesa non adeguatamente coperta. Uno scenario da brivido di cui dovrebbero tener conto i partiti ma le risposte a questi problemi sono assenti nella campagna elettorale. Eppure, alcuni autorevoli centri studi hanno già quantificato l’impatto della tempesta
economica autunnale e messo in guardia il governo che verrà. Un monitoraggio del Cerved su oltre 600.000 società di capitali, dice che sono oltre 100.000 le imprese a rischio fallimento nel 2022.

Quadro economico peggiorato

L’area in difficoltà occupa 831.000 addetti e presenta un indebitamento di 107 miliardi. È l’impatto potenziale del nuovo quadro macroeconomico peggiorato per effetto delle impennate dei costi dei materiali e dell’energia. Se quindi dopo il periodo più duro del Covid che aveva messo a rischio oltre un’azienda su cinque, c’era stata una ripresa ai livelli prepandemia, ora il quadro è peggiorato. I settori più a rischio sono le costruzioni e i servizi, come ristorazione, dettaglio moda, parrucchieri, turismo. Sono 111 su 233 i comparti che tra il 2021 e il 2022 hanno peggiorato il profilo di rischio. Soffrono la siderurgia, tutte le industrie energivore e l’auto. Il Cerved spiega che mentre durante la pandemia c’è stato il paracadute delle misure di salvaguardia e il Pnrr ha fatto sentire gli effetti, l’aggravarsi dei rincari delle materie prime, l’inflazione, il costo del debito e l’esaurirsi dei sostegni, “hanno minato la capacità di tenuta di un sistema produttivo già debilitato”. La situazione impatta soprattutto sulle piccole e micro imprese (che sono il tessuto connettivo del sistema Italia) e sulle realtà del Mezzogiorno dove sono in difficoltà sei aziende su dieci. L’Ance ha fatto un’analisi dettagliata dei rincari dei materiali edili, che stanno zavorrando i bilanci delle aziende. A giugno 2022 il tondo per cemento armato è aumentato del 115% rispetto a giugno 2020, il bitume del 91%, il pvc del 158% il polistirene del 104%, il rame del 79%, il polipropilene del 96% e il legname di conifera e piallato grezzo dell’84%. Incrementi di prezzo anche per altri materiali edili come lamiere di acciaio, zincati, tubazioni elettrosaldate.

Il pasticciaccio del 110%

Vanno poi aggiunti i rincari che l’edilizia ha in comune con altri settori, come il petrolio (+141%), il gasolio (+170%), il gas naturale (+1.204%) e l’energia elettrica (+671%). Questo significa che tutti i preventivi sono saltati. Chi può aggiorna i contratti, ma chi non riesce a concordare con il committente un nuovo prezzario, è costretto a bloccare i lavori per non fallire. Gli amministratori dei condomini di tutta Italia stanno impazzendo alle prese con palazzi, ingabbiati da ponteggi diventati eterni cantieri. L’Ance ha stimato che a fronte dei rincari, costruire un immobile di quattro piani con 24 appartamenti, di circa 88 metri quadri, costa il 17% in più del 2020. Le imprese dell’edilizia devono vedersela anche con il pasticciaccio del 110%. Le casse sono zeppe di crediti acquisiti con il super bonus, ma che le banche non vogliono monetizzare. I continui aggiustamenti delle regole ha prima mandato in tilt il mercato con la disperata ricerca di adeguarsi poi lo ha bloccato. Come se non bastasse, ci sono i tempi di pagamento della pubblica amministrazione che si sono allungati in modo impressionante. Molte imprese rischiano di chiudere non per l’impossibilità di pagare i propri debiti ma per insolvenze in grandissima parte imputabili alle inadempienze delle amministrazioni. Eurostat ha calcolato che i mancati pagamenti della Pa nei confronti dei fornitori, ammontano almeno a 55,6 miliardi di euro. L’assenza di liquidità determinata spesso dall’impossibilità di riscuotere i pagamenti dei committenti, porta i piccoli imprenditori nella trappola degli usurai. Secondo la Cgia sono 146.000 le pmi a rischio di usura. Si tratta prevalentemente di imprese artigiane, attività commerciali o piccoli imprenditori che sono «scivolati» nell’area dell’insolvenza e sono stati segnalati dagli intermediari finanziari alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia. È una schedatura che taglia fuori queste attività dalla possibilità di accedere a un nuovo prestito. Per costoro è la morte civile. (La Verità)

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