Processo Lucano, parla l’ex sindaco di Riace (SERVIZIO TV)

di Vincenzo Imperitura – Si scrive Riace, si legge accoglienza. Mimmo Lucano, ex sindaco del piccolo centro della Locride, torna spesso sul concetto del modello partito da quando, nel 1998, un barcone scassato naufragò sulle sponde dello Jonio con il suo carico di disperati in fuga dal Kurdistan.

In aula per la prima volta nel processo che lo vede imputato assieme ad altre 26 persone, Lucano ha parlato per più di un’ora dell’esperienza che lo ha visto protagonista assieme ai suoi concittadini, rimarcando le contraddizioni delle varie amministrazioni pubbliche che da un lato spingevano affinchè Riace intervenisse sempre più pesantemente durante il periodo più complicato per gli sbarchi, e dall’altro appuntavano criticità che gli sarebbero costate il rinvio a giudizio. «È iniziato tutto nel 1998 – racconta ai giudici “Mimmu u curdu” – andavo a scuola e ho visto il barcone approdato sulla spiaggia a Riace: mi sono fermato a dare una mano e da lì il senso della mia vita è radicalmente cambiato. Con l’aiuto dell’allora vescovo Bregantini, abbiamo sistemato queste persone nel santuario del paese e quando, a settembre, abbiamo dovuto sgombrare la struttura per permettere l’afflusso dei pellegrini, li abbiamo spostati nelle case abbandonate del borgo: così è nato il paese dell’accoglienza».

In aula per la prima volta nel processo che lo vede imputato assieme ad altre 26 persone, Lucano ha parlato per più di un’ora dell’esperienza che lo ha visto protagonista assieme ai suoi concittadini, rimarcando le contraddizioni delle varie amministrazioni pubbliche che da un lato spingevano affinchè Riace intervenisse sempre più pesantemente durante il periodo più complicato per gli sbarchi, e dall’altro appuntavano criticità che gli sarebbero costate il rinvio a giudizio. «È iniziato tutto nel 1998 – racconta ai giudici “Mimmu u curdu” – andavo a scuola e ho visto il barcone approdato sulla spiaggia a Riace: mi sono fermato a dare una mano e da lì il senso della mia vita è radicalmente cambiato. Con l’aiuto dell’allora vescovo Bregantini, abbiamo sistemato queste persone nel santuario del paese e quando, a settembre, abbiamo dovuto sgombrare la struttura per permettere l’afflusso dei pellegrini, li abbiamo spostati nelle case abbandonate del borgo: così è nato il paese dell’accoglienza».

È un viaggio a ritroso nel tempo quello di Lucano che, in poco più di un’ora riallaccia i fili di una storia che ha portato il minuscolo centro della Locride, sulle pagine dei maggiori media mondiali. «Le cose stavano andando bene, il paese era rinato ed eravamo riusciti anche a creare una serie di borse lavoro che hanno consentito ai migranti di inviare rimesse economiche nel loro paese, proprio come per anni avevano fatto i nostri padri e i nostri fratelli emigrati in cerca di fortuna. Da paese fatto di emigranti eravamo diventati un paese in grado di dare un futuro non solo agli stranieri ma a tantissimi giovani del posto che sono entrati nei progetti grazie alla formazione di nuove associazioni. I problemi – racconta ancora Lucano, più volte sorpreso dall’emozione – sono iniziati quando il comitato centrale del progetto Sprar inviò un’ispezione. Un’ispezione dai tratti molti strani, visto che il marito della persona che venne a fare il controllo era a sua volta impegnato in altri progetti d’accoglienza lontani da Riace». E poi le relazioni della prefettura, con la prima dai tratti molto negativi «che venne immediatamente pubblicata su Il Gionale» e la seconda, fatta con maggiore cura e in più tempo «che descriveva Riace come il Paradiso, ma che non siamo riusciti ad avere fino a quando i miei avvocati non hanno pensato di richiederla all’autorità giudiziaria».  Quando gli sbarchi aumentarono in maniera esponenziale su tutto il territorio nazionale poi, la Prefettura «mi chiamava a tutte le ore per pregarmi di prendere altri migranti in paese. In un’occasione l’allora Prefetto Morcone mi chiese di accogliere 500 migranti tutti in una volta. Noi ci siamo sforzati e assieme ai comuni di Caulonia e Stignano, fummo in grado di ospitarne 200, meno di quelli richiesti ma molti di più di una città come Milano, che negli stessi giorni, dava la sua disponibilità per ospitarne 20. Nonostante questo, tra le contestazioni che mi vengono avanzate ci sono le delibere di agibilità delle case, dove noi avevamo sistemato i nuovi arrivati proprio perché spinti dalla Prefettura». Sembra il classico caso delle amministrazioni pubbliche che si parlano senza capirsi, ma in questo caso, sul piatto ci sono esseri umani: «noi non ci siamo sentiti di interrompere l’accoglienza dopo sei mesi come prevedono le linee guida dello Sprar: come potevamo sradicare dalla scuola i bambini che intanto avevano cominciato a seguire i corsi e si erano perfettamente integrati con compagni di classe e insegnanti? Non lo abbiamo fatto, e sono orgoglioso di questo. Ma da allora il ministero ha sospeso l’erogazione dei fondi già rendicontati; fondi che ad oggi, non sono ancora arrivati. Mi accusano di concussione, e io non sapevo neanche cosa significasse questo reato. Quando i miei avvocati me lo hanno spiegato, solo allora ho realizzato che l’unica vittima della concussione ero io». E ancora, il ricordo della donna migrante che lasciata Riace a causa del diniego dello status di rifugiato, ha finito per trovare una morte orrenda nella tendopoli di San Ferdinando: bruciata viva mentre tentava di scaldarsi con un fuoco all’interno di una baracca dello slum sorto alle spalle dell’area portuale di Gioia Tauro. Un episodio che ha lasciato il segno e che rimarca ancora una volta «la differenza tra quello che facevamo a Riace e quello che succedeva nel resto d’Italia».

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