Una filiera, che rappresenta più del 4% del fatturato del comparto agroalimentare italiano, per un valore di oltre 6 miliardi di euro, e che vede coinvolti più di 230mila addetti in oltre 135mila aziende attive in tutte le regioni del nostro Paese. Un settore che contribuisce alla diffusione del Made in Italy nel mondo, con le sue carni e suoi formaggi, ma che sempre più spesso è sotto i riflettori quando si parla di impatti ambientali. È vero che allevare mucche è un’attività incompatibile con la sostenibilità? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Pulina, Ordinario di Etica e sostenibilità delle produzioni animali all’Università di Sassari, e anche presidente di Carni Sostenibili, l’associazione per il consumo consapevole e la produzione sostenibile di carni e salumi. Pulina è intervenuto al simposio internazionale “Cow is Veg” organizzato da Assocarni in collaborazione con Coldiretti.
L’impatto climalterante
L’impatto climalterante
“L’allevamento italiano dei ruminanti del quale i bovini rappresentano di gran lunga la maggior componente, secondo ISPRA, – spiega Pulina – ha generato nel 2019 un impatto climalterante di poco inferiore ai 20 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti. Se consideriamo gli assorbimenti di anidride carbonica di pascoli, prati e dalle superfici silvane pascolate, sempre utilizzando prudenzialmente stime ISPRA, si arriva ad un pareggio con le emissioni. Pertanto, possiamo affermare che quanto emesso dai bovini italiani in termini di gas serra è compensato dagli assorbimenti della CO2 nelle superfici in cui essi pascolano o in cui si ottengono i foraggi.
Le emissioni
“In tutte le attività umane, eccetto l’agricoltura, – chiarisce Pulina – gli impatti ambientali sono commisurati alle emissioni che perturbano i sistemi naturali. In agricoltura e in zootecnia, invece, le emissioni sono compensate dagli assorbimenti che gli ecosistemi effettuano per cui ciò che importa è il bilancio netto fra le prime e i secondi. Nel nostro caso, come detto, con le metriche usate da ISPRA, allineate con quelle impiegate a livello internazionale dal IPCC, il bilancio dei ruminanti in Italia è a zero. Le stime ufficiali ci dicono che tutto il sistema zootecnico italiano impatta su clima per il 5% del totale nazionale, e i bovini non raggiungono il 4%. Dati analoghi li troviamo nei Paesi con allevamenti altamente efficienti, ma nel caso italiano abbiamo il dato risolutivo degli assorbimenti che azzera di fatto questo contributo”.
Produrre di più consumando di meno
“La sfida maggiore – secondo Pulina – è produrre di più consumando di meno, diventando cioè sempre più sostenibili senza privare l’attuale e futura popolazione dell’opportunità di poter mangiare un cibo essenziale quale la carne. Questa sfida deve inoltre venire incontro alle esigenze dei cittadini sui temi del benessere animale e della riduzione dell’uso degli antimicrobici, senza tralasciare il tema della sicurezza e qualità dei prodotti. Fino a pochi anni fa l’aumento della produttività nelle filiere agroalimentari comportava per oltre 2/3 il maggior uso di risorse e per 1/3 la migliore organizzazione dei fattori produttivi. Nell’ultimo decennio, grazie alla rivoluzione informatica, il rapporto si è ribaltato e abbiamo continuato a crescere in produttività grazie alla maggiore conoscenza per i 2/3 dell’incremento relegando a 1/3 l’uso maggiore di risorse. Ora siamo nella fase di transizione digitale che comporterà aumenti della produttività completamene a carico della maggiore conoscenza e addirittura la liberazione di risorse per altri fini utili all’uomo: siamo entrati nell’era del knowledge intensive”.
Agricoltura a basso rendimento
“L’agricoltura a basso rendimento sfrutta estensivamente le risorse naturali per ottenere cibo per cui occupa vaste aree per ricavare una quantità limitata di prodotto. Se poi la bassa produttività riguarda gli animali, per aumentare l’output si ricorre all’aumento dei carichi con conseguente degrado dei pascoli e desertificazione. Viceversa, elevata produttività unitaria è sinonimo di uso ottimale delle risorse e, nel nostro caso, di terreno, energia e acqua: ciò consente non solo minori impatti unitari, ma anche – conclude Pulina – di liberare i terreni meno produttivi per la rinaturalizzazione aumentando così i servizi ecosistemici resi dalle aree rurali”.