di Danilo Colacino – Regione Calabria e quei conti che non tornano. Mai.
Già, perché una ‘manovra’, come quella varata ieri sera nell’Astronave di via Cardinale Portanova a Reggio, da 7.5 miliardi di euro non è di certo uno scherzo.
Già, perché una ‘manovra’, come quella varata ieri sera nell’Astronave di via Cardinale Portanova a Reggio, da 7.5 miliardi di euro non è di certo uno scherzo.
Anzi, in realtà è una montagna. Di soldi.
Soprattutto se una parte, pur non preponderante, di questo fiume di quattrini serve a sovvenzionare enti inutili – ma sarebbe meglio scrivere entità, considerata la loro capacità di sopravvivere a qualsiasi evento – e addirittura dichiarati superflui che però invece di chiudere i battenti, seguitano imperterriti a implementare la pianta organica. Resta tuttavia il fatto che Palazzo Campanella e la Cittadella sono evidentemente una sorta di mix tra il pubblico impiego e una Fiata tutta calabrese, una vacca da mungere fino – ma forse oltre – a…esaurimento scorte.
Tanto che verrebbe da proporre provocatoriamente: “Perché con i fondi del Coronavirus non si rifà un tuffo negli anni ’80. Si torna magari pure a stampare moneta, uscendo dall’euro, e con l’impennata del debito pubblico si riprende a impiegare la gente negli uffici”.
Sarebbe infatti più giusto, seppur in linea teorica, di un sistema attuale in cui nelle più ambite strutture della Pa come la Regione ci entra solo chi vanta una raccomandazione politica, assecondando la logica della becera clientela.
Un malvezzo che si perpetua, salvo poi dare la colpa a chi c’era prima (causa di ogni spreco) come appunto ancora una volta successo in occasione dell’approvazione dell’ultimo Bilancio.
Un atto di accusa di Jole Santelli, che ha puntato il dito contro Mario Oliverio il quale però circa sei anni fa aveva fatto lo stesso con Peppe Scopelliti a sua volta critico nei confronti di uno dei tanti predecessori al vertice della Regione: Agazio Loiero. Sì, proprio come nella nota canzone Alla fiera dell’Est in cui, peraltro, “e venne il cane che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò”.
Stiamo ipotizzando o più esattamente sognando, dunque, che sarebbe meglio uscire dall’ipocrisia di “risanamento e rispetto delle regole”, deregolamentando al contrario l’economia – nazionale e locale – così da tornare ai tempi in cui “chi vuol lavorare meno e si accontenta aspetta un sicuro San Paganino il giorno 27 di ogni mese e quanti invece ambiscono a un maggiore guadagno e a una diversa realizzazione personale si danno all’impresa privata, la famosa intrapresa”.
Magari si potesse fare, così sarebbe la fine di una commedia in cui i privilegiati saranno ancora, e sempre, tali e agli altri si darà la pia illusione di voler applicare severissime riforme all’insegna di un intransigente controllo.
Un annuncio propagandistico che sarà in futuro, come ovvio, puntualmente disatteso per non ‘guastarsela’ con l’elettorato.
Il tutto mentre pochi, o nessuno, si curano di quelle aziende che sfamano intanto coloro i quali non hanno…Santi in Paradiso.