di Gabriella Passariello- Dal controllo del territorio e delle attività economiche ricorrendo a forme di intimidazioni pesanti, al reciproco riconoscimento con le più potenti cosche lametine, per passare al sostegno degli affiliati detenuti, alla segretezza del vincolo, al ricorso alla violenza per affermare la supremazia sugli avversari. “Prove queste che consentono di affermare l’esistenza, nel territorio del Reventino di un’organizzazione criminale identificabile come clan Scalise. Il gup del Tribunale di Catanzaro Pietro Carè nelle motivazioni della sentenza Reventinum che il 18 giugno del 2021 ha portato a due ergastoli, a tre condanne a pene comprese tra gli otto e i sei anni di reclusione nell’ambito di un’inchiesta che ha inferto un duro colpo a capi e gregari della cosca del “Gruppo storico della montagna”, operante nella Sila Catanzarese e comprendente i territori di Soveria Mannelli, Decollatura, Platania, Serrastretta e zone limitrofe (LEGGI QUI), ricostruisce la faida tra le cosche rivali dei Mezzatesta e degli Scalise. E si spinge oltre, offrendo un identikit della natura mafiosa del sodalizio costituito da Pino Scalise, facendo riferimento all’acquisto di armi ed esplosivi di cui hanno rilasciato dichiarazioni i collaboratori di giustizia, tanto da ritenerli non solo famiglia di ‘ndrangheta ma anche imputati facenti parte di un’associazione armata.
L’identikit di Pino Scalise e le dichiarazioni dei pentiti
L’identikit di Pino Scalise e le dichiarazioni dei pentiti
Il gup nelle carte parla della carriera criminale di Pino Scalise, carriera che risale al 1978, quando con Luigi Aiello, detto “Sceriffo” viene arrestato per omicidio preterintenzionale per aver provocato la morte di una persona durante una rapina. La sua ascesa delinquenziale di stampo mafioso matura con molta probabilità proprio durante la detenzione. “In questo periodo stringe i rapporti con la famiglia Arcieri ed entra a far parte del Gruppo storico della Montagna già capeggiato da Eugenio Tomaino, cercando di scavalcare quest’ultimo, motivi che hanno creato dissidi portando nell’estate 2001 al tentato omicidio ai suoi danni”. Un episodio questo, che segnerà il suo definitivo abbandono dal Gruppo storico della montagna. I collaboratori di giustizia indicano Pino Scalise al vertice dell’omonimo clan familiare: Angelo Torcasio attesta la gestione delle estorsioni nei comuni di Soveria Mannelli, Decollatura, e zone limitrofe per conto dapprima degli Arcieri, quindi dei Iannazzo di Sambiase, mentre Rosario Cappello riferisce di come assieme ai figli, Pino Scalise obblighi le ditte aggiudicatarie di appalti pubblici o privati a far lavorare i propri mezzi di movimento terra e anche a pagare una percentuale a titolo di pizzo, riconoscendo al suo gruppo autonomia per le estorsioni minori, droga, armi e anche qualche omicidio. Domenico Giampà conferma come Pino Scalise, tramite Vincenzo Arcieri, fosse il referente della cosca per la raccolta di soldi nelle zone della montagna, riferendo di un episodio in cui si era messo a disposizione del cugino Vincenzo Giampà detto il “Camacio” e di Vincenzo Arcieri per chiudere un’estorsione relativa ad un ponte dell’autostrada in località Calia. Particolarmente significative, secondo il gup, per definire la personalità di Pino Scalise sono le dichiarazioni di Antonio Lucente, arrestato insieme a Luciano Scalise nel 2002, che lo descrive come criminale senza remore, pronto a rapire ed uccidere gli autori di un attentato del 2001 ai suoi danni, detentore di armi ed esplosivi e soprattutto in possesso della dote di camorrista.
Le confessioni di Pino Scalise e le intercettazioni
Per il gup hanno valenza confessoria anche le dichiarazioni di Pino Scalise nel periodo successivo all’attentato del 2001, in cui oltre ad auto accusarsi di concorso in un omicidio del 1990, inquadra lo scontro in atto con i residui componenti del Gruppo storico della Montagna, rivali per il controllo ‘ndranghetistico del territorio dle Reventino. A tratteggiare la figura di Pino Scalise non posso non menzionarsi alcune risultanze intercettive, come conferma della sua appartenenza alla ‘ndrangheta. In una conversazione del 24 novembre 2017 Salvatore Domenico Mingoia, ritenuto intraneo alla cosca, rimarca alla sorella che addebita ai suoi trascorsi giudiziari il veto all’ingresso nei carabinieri del proprio figlio, di avere pochi precedenti rispetto ad uno come Pino Scalise, che è delinquente e dentro la ‘ndrangheta. “Ulteriori elementi di prova della condotta associativa si ritraggono sia nella minaccia e omicidio dell’avvocato Pagliuso”, delitti materialmente eseguiti dai figli dello Scalise e da altri sodali ma non realizzabili senza mandato e l’avallo del capo cosca, sia quelli per i quali l’imputato ha optato per il rito ordinario”, facendo chiaro riferimento il giudice ad una serie di estorsioni ai danni di alcune ditte.