Rientro in classe: “Stare a casa non vuol dire essere al sicuro”

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RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO – Dal sei marzo 2020, nell’anno orribile che sembra estendere i suoi catastrofici effetti molto oltre i limiti cronologici, non si fa che parlare di scuola. Ogni giorno annunci, previsioni, opinioni varie e diverse notizie di scioperi, occupazioni, petizioni; tutti esperti nell’arte delle parole che si arricchiscono di acronimi e neologismi: DAD, DDI, piattaforme network…

E chi si occupa di scuola troppo spesso è condannato ad eseguire in silenzio dettati vari e diversi, apertura ad orologeria, chiusura dopo 25 giorni di presenza, riapertura il 7 gennaio, poi l’undici poi il primo febbraio e ancora epistole varie e diverse di alunni, genitori e oggi anche presidi. Il Miur poi produce quintali di documenti, atti d’indirizzo, disposizioni, indagini, report, pari o superiori a quelli emanati dal ministero della sanità.

E chi si occupa di scuola troppo spesso è condannato ad eseguire in silenzio dettati vari e diversi, apertura ad orologeria, chiusura dopo 25 giorni di presenza, riapertura il 7 gennaio, poi l’undici poi il primo febbraio e ancora epistole varie e diverse di alunni, genitori e oggi anche presidi. Il Miur poi produce quintali di documenti, atti d’indirizzo, disposizioni, indagini, report, pari o superiori a quelli emanati dal ministero della sanità.

In realtà poche cose sono state fatte, tra quelle che mesi fa alcuni dirigenti avevano richiesto con forza: riduzione del numero di alunni per classe (nella legge di bilancio non vi è alcuna menzione delle somme da stanziare per rettificare la norma vigente Decreto del Ministero della pubblica istruzione del 24 luglio 1994 numero 331 mai modificata, che prevede l’obbligatorietà di formare classi con un minimo di 27 alunni elevabile a 30); incremento strutturale, non emergenziale dell’organico docente e Ata, implementazione dei trasporti (in parte programmati), autonomia decisionale delle scuole del territorio.  

E tuttora la scuola stenta a distanza  a svolgere il suo ruolo istituzionale: l’educazione dell’uomo e del cittadino. Agamben, nel Requiem per gli studenti del 23 maggio 2020, denuncia una “barbarie tecnologica” che cancella ogni esperienza dei sensi e comporta la perdita dello sguardo, per consegnarlo alla freddezza elettrica dello schermo. Secondo Agamben quella dello studente è una forma di vita, in cui se determinante era lo studio e l’ascolto delle lezioni, “…non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti…”

È ineludibile l’emergenza sanitaria, il rischio del contagio e le innumerevoli variabili dell’apocalittica condizione che il mondo vive, ma proviamo a ragionare in termini diversi delle possibili soluzioni, partendo dall’analisi della situazione reale.

Io sono entrata più volte nella classi virtuali, ma l’ultima visita mi ha segnato, tre ragazze interpellate per definire e risolvere problemi all’interno del gruppo sono scoppiate in un pianto dirotto; nulla avevano fatto, nulla rischiavano, ma  piangevano desolate, e non c’era vicino a loro la compagna o il compagno che porgesse loro un fazzolettino, che prendesse loro la mano anche  la docente, stupita e turbata, era distante, non poteva avvicinarsi per rincuorare o sostenere ed io? Io ero in una condizione  di impotenza totale.

Poi scrutini per quindici giorni, ogni giorno tre o quattro classi; diagnosi conclusiva: i più fragili, i più bisognosi di cure erano spesso vittime incolpevoli della  condizione di isolamento, un caro alunno si collega dall’automobile della madre, altri vengono raggiunti a domicilio, altri si sottraggono ad ogni contatto. E gli altri? I più entusiasti arretrano, si spengono, quelli che hanno sempre seguito dosando le proprie forze si assentano di frequente, non consegnano i lavori a tempo e, spesso, si limitano ad una soluzione breve ed indolore dei temi  proposti dai docenti. E tutto il resto è sospeso, i laboratori musicali e teatrali, l’educazione alla legalità, i certamina e le gare, le visite e i viaggi d’istruzione, i corsi di recupero e di approfondimento, le gare ginniche… tutto rimandato o cassato dalle regole della Dad che inibiscono o riducono il tempo di attività sincrone: 40 minuti, intervalli, durata massima di circa tre ore al giorno…

Come si può pensare che l’intero anno si svolga così? Qualcuno paventa i rischi del ritorno in presenza ma io temo il perdurare di questa situazione che non preserva i ragazzi che s’incontrano a frotte nei luoghi a loro congeniali, giardini, ville, strade senza alcuna misura di sicurezza, senza alcun controllo dei genitori senza una multa erogata dalle forze dell’ordine, senza alcun limite se non quello spazio temporale. Non a scuola non vuol dire a casa tutelati e sicuri , anzi le ore trascorse a scuola solo immuni da ogni rischio, il resto preoccupa tutti ma continua ad accadere nell’inerzia e nell’indifferenza degli adulti. 

Allora, forse, tornare in classe, sia pure al 50% sia pure con orari differenziati per un tempo ridotto, consentirebbe un dialogo autentico, interrotto e sostituito da uno schermo impersonale che a me pare assolutamente inadeguato a contenere la vita che si esprime con tutta la fisicità che comunica emozioni e sentimenti, paure e gioie, relazioni e interazioni. Tutto più difficile? Certo ma di nuovo per il tempo che ci verrà concesso più vero.

Elena De Filippis, dirigente Liceo Classico “P. Galluppi”

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