Rinascita Scott, il pentito Femia e la “devozione” di Pittelli ai Mancuso: “In Parlamento con i loro voti”

L'esame del collaboratore di giustizia reggino e le accuse al noto penalista catanzarese: "Gli diedi 125mila euro per aggiustare il processo"
Rinascita Scott Femia

Il primo omicidio commesso a soli quindici anni, la carriera da riservato tra le file del clan Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica, quella da trafficante di droga nell’alto Tirreno cosentino e di imprenditore nel settore delle slot-machine in Emilia. La vita criminale di Rocco Nicola Femia è il racconto di oltre quaranta anni di ‘ndrangheta. Dagli esordi nella “malavita” fino alla decisione di saltare il fosso e collaborare con la giustizia nel 2017. Le sue rivelazioni messe a verbale sono confluite nel maxiprocesso Rinascita Scott e quella di oggi è stata la sua udienza. Collegato da un sito riservato con l’aula bunker di Lamezia Terme ha risposto alle domande del pm antimafia Antonio Bernardo e poi a quelle dell’avvocato Salvatore Staiano e dell’avvocato Guido Contestabile.

Da baby-killer a pentito

Da baby-killer a pentito

Assistito dall’avvocato Annalisa Pisano, in sostituzione della collega Carmen Di Meo, Femia si è sottoposto dapprima all’esame della pubblica accusa che è durato circa due ore. E’ partito dal suo battesimo di fuoco nel 1976 quando all’età di 15 anni commise il suo primo omicidio per il quale ha fatto poco più di un anno di carcere perché – rivela in aula – “c’erano testimoni compiacenti”. Sottolinea di non essere mai stato affiliato alla ‘ndrangheta ma di aver fatto parte della ristretta cerchia dei “riservati” rispondendo direttamente al boss Vincenzo Mazzaferro durante la guerra di mafia con gli Aquino. Il suo curriculum criminale vanta un andirivieni dal carcere tra arresti e processi per associazione a delinquere, armi, droga. Dalla Locride all’alto Tirreno cosentino per trafficare sostanze stupefacenti a Santa Maria del Cedro prima di finire nuovamente dietro le sbarre. Baby-killer, trafficante di droga e imprenditore dopo il trasferimento a Bologna dal fratello per inaugurare il florido business delle slot-machine: “Detenevo – afferma – il 13% del mercato nazionale fornendo i giochi online alla consorteria dei casalesi”. Ricco, anzi ricchissimo fino all’operazione “Black Monkey” che segnò il punto di svolta. Nel 2017 la decisione di collaborare con la giustizia: “Per cambiare vita e offrire – spiega – un futuro migliore ai miei figli”.

“Pittelli aggiustava i processi”

L’esame di Femia si concentra quasi prevalentemente sulla figura dell’avvocato Giancarlo Pittelli, uno dei principali imputati di “Rinascita Scott”. Il pentito dice di averlo conosciuto tra gennaio e febbraio del 2009 a pochi mesi dalla condanna a 30 anni di carcere sentenziata in primo grado dal Tribunale di Paola. Cercava un penalista “bravo” a Catanzaro e un avvocato del foro di Locri gli ha consigliato Giancarlo Pittelli. “Io non lo conoscevo – dichiara Femia – ma ho saputo che era uno dei migliori su Catanzaro e, visto che c’era da preparare il mio processo d’appello, mi sono rivolto a lui anche perché in carcere girava voce sulla sua bravura e degli agganci che aveva con i magistrati per aggiustare i processi”. In quel periodo, il teste ha ricordato di essersi recato nello studio catanzarese del penalista per portargli soldi: “Si trattava di un acconto – riferisce – di 25mila euro in tagli da 500 euro, senza ricevere mai fattura, ed era stata una mia iniziativa per fargli capire che non avevo problema di soldi in quanto a me interessava che venissi assolto al processo”. E Pittelli? Secondo quanto sostenuto da Femia in aula avrebbe risposto dicendo che si sarebbe impegnato per vedere cosa poteva fare “per sistemare le cose e che c’erano delle possibilità, ma non mi aveva dato sicurezza”. L’8 novembre Femia venne nuovamente arrestato – per il pericolo di fuga dopo la condanna a 30 anni – e trasferito nel carcere a Spoleto. “Da qui inviai mio figlio nell’ufficio di Pittelli con altri 25mila euro per il Tdl, che venne rinviato due-tre volte prima della scarcerazione, a febbraio dell’anno successivo”.

Il presunto sostegno elettorale dei Mancuso

Nel carcere di Spoleto, Femia avrebbe conosciuto, tra gli altri, Antonio Mancuso, esponente di vertice dell’omonima famiglia di Limbadi, difeso da Pittelli: “Mi disse che era una avvocato serio e che doveva ringraziare la sua famiglia se era andato in Parlamento per i voti che gli avevano dato. Aggiunse che era devoto a loro proprio per questo fatto dell’elezione, che per tale motivo non si faceva pagare, e che se prende un impegno lo mantiene. Disse inoltre – il riferimento del pentito è sempre a Pittelli – che aveva molte amicizie con i magistrati a Catanzaro che gli consentivano di cambiare l’esito dei processi, e che, infine,  per quanto concerne la sua posizione (quella di Antonio Mancuso ndr), si stava dando da fare per trasferirlo in un Centro clinico di Pisa e questo perché stava dissimulando una malattia, ma in realtà lui stava benissimo”. Femia avrebbe chiesto all’anziano boss di Limbadi “se poteva mandare una ‘mbasciata (un messaggio) a Pittelli per avere maggiore sicurezza, magari avrebbe potuto avvicinare un magistrato, visto che avevo rimediato una condanna a 30 anni, e lui aveva risposto che lo avrebbe fatto”. Venendo meno le esigenze cautelari, Femia venne scarcerato l’8 febbraio del 2010 e successivamente avrebbe incontrato a Roma il legale: “Mi disse che c’era la possibilità di aggiustare il processo e mi chiese 50mila euro di acconto e, inoltre, che Antonio Mancuso mi mandava i saluti”. Il denaro, il teste ha affermato di averlo portato al penalista al suo studio nella Capitale, in via della Lupa, accanto al Parlamento, e nell’occasione “lui mi aveva chiesto se volevo fare qualche investimento immobiliare e se volevo comprare la sua barca ma a me non mi interessava ma l’ho fatto mettere in contatto con un noto giocatore di biliardo, che poi ebbe problemi con la giustizia, e so che l’affare si concluse”. Poi ci sarebbe stato un ulteriore incontro sempre con Pittelli ma stavolta a Catanzaro: “Mi notiziò del cambio di un magistrato in Appello e che non sapeva cosa potesse fare”. Alla fine il processo (tornato dalla Cassazione) “andò male”. Femia fu condannato anche in secondo grado: “Ebbi solo una riduzione della pena a 23 anni. Le spiegazioni che mi sono dato è che non so se Pittelli mi ha preso in giro oppure magari non ha potuto davvero fare nulla”. Su questo punto il pm, leggendo il verbale a firma del pentito, ha riportato le dichiarazioni di natura differente messe nero su bianco nell’interrogatorio a suo tempo reso dal pentito ai magistrati della Dda: “Ritengo che il mancato aggiustamento del processo sia dovuto al fatto che, nelle more, la Dda di Bologna stava svolgendo indagini con il Gico di Bologna in merito al tentativo di corruzione di un giudice della Cassazione del cui scandalo avevano parlato i giornali nazionali”. E i soldi, Femia, ha riferito di “non averli mai chiesti indietro a Pittelli perché avevo un altro processo a Catanzaro e sapevo che comunque lui aveva amicizie”.

Il controesame di Staiano e Contestabile

Concluso l’esame del pm De Bernardo, è toccato all’avvocato Staiano iniziare il breve ma intenso controesame chiedendo al collaboratore di giustizia chiarimenti sul trasferimento di Mancuso al Centro Clinico di Pisa. Femia specifica di non sapere se Pittelli abbia mai speso un intervento illecito. “So solo – ha precisato – che Mancuso mi disse che stava aspettando di andare al centro clinico perché glielo aveva detto Pittelli”. Staiano ha quindi annunciato produzione documentale “che smentisce il racconto del collaboratore”. Quanto alla scarcerazione del Tdl, Femia ha ribadito “di non sapere se Pittelli avesse pagato. A me importava uscire di carcere”. Successivamente è stata la volta del avvocato Guido Contestabile che nel saggiare l’attendibilità del teste in ordine alle prime dichiarazioni rilasciate all’autorità giudiziaria tra Salerno, Bologna e Catanzaro ha evidenziato che il nome di Pittelli è stato pronunciato da Femia per la prima volta solo 4 anni dopo l’inizio della sua collaborazione. Sul presunto appoggio elettorale da parte dei Mancuso, il teste ha ribadito quanto dettogli dal boss di Limbadi mentre sulla altrettanto presunta capacità del penalista di “aggiustare i processi”, ha risposto di “non aver mai chiesto a Mancuso quale processo Pittelli gli abbia aggiustato”.

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