Rinascita Scott, il pentito Moscato svela la “macchia” di Andrea Mantella

Prosegue la lunga deposizione del collaboratore di giustizia nel maxi processo contro la 'ndrangheta del Vibonese: "Mantella era il boss indiscusso, ma non poteva esserlo ufficialmente"

di Gabriella Passariello- A pochi giorni dall’audizione del collaboratore di giustizia Andrea Mantella, il pentito Raffaele Moscato svela al pm della distrettuale di Catanzaro, nel corso dell’udienza “Rinascita Scott”, alcuni dettagli sull’ex boss scissionista del clan Barba-Lo Bianco. E lo fa contestualizzando il suo nome e cognome all’interno delle locali di Vibo. Riferisce in vedeoconferenza dal sito protetto che Domenico Camillò, fratellastro di Raffaele Pardea e cugino di Francesco Macrì, morto in un incidente stradale a Pizzo con la moto è il capo della nuova ‘ndrina che è stata costituita a Vibo, della quale fanno parte Antonio Macrì, elettricista meccanico, Raffaele Pardea, Marco Pardea, Antonio Pardea, Carmelo Pardea, Salvatore Morelli, Domenico Tomaino, Carmelo Chiarella, Domenico Macrì, Domenico Pardea, Luciano Macrì, Mario Macrì e Giuseppe Garzo, precisando di essere a conoscenza che è stato battezzato Carmelo Soriano. Non sa se quest’ultimo fa parte della nuova locale di Vibo, ma è certo che ha ricevuto la dote di sgarrista nel carcere di Catanzaro. Un’informazione, questa, riferita da Antonio Pardea, dopo che era stata formata la ‘ndrina, a cui si sono aggiunte quelle di Stefanaconi e di Sant’Onofrio. Il capo di tutta la ‘ndrina di Vibo in ogni caso resta sempre Andrea Mantella, che non può esserne messo ufficialmente a capo per motivi personali. Il motivo? Mantella, a dire di Moscato, avrebbe avuto una macchia: stava con la moglie del fratello, dalla quale avrebbe avuto “un bimbo o una bimba”, ma in ogni caso, quando sarebbe uscito dal carcere sarebbe stato lui a comandare. Così come poi è avvenuto prima che decidesse di collaborare con la Dda.

La nuova ‘ndrina di Stefanaconi

La nuova ‘ndrina di Stefanaconi

Moscato riferisce inoltre di aver conosciuto personalmente Giovanni Franzè di Stefanaconi, parente di Rosario Fiarè, e di aver saputo sul suo conto quando è andato a casa di Domenico Bonavota il giorno di Natale 2013, precisamente nel bagno. Dopo aver aperto il rubinetto per evitare di essere intercettati, Bonavota gli raccontò che quelli di Stefanaconi avevano una nuova ‘ndrina o locale, facendo i nomi di chi ne faceva parte. I primi tre erano Giovanni Franzè, di circa 55 anni, con i capelli bianchi, Salvatore Patania, fratello di Fortunato ucciso in un agguato, ma estraneo alla guerra e una persona soprannominata Mazzola o Mazzotta, parente dei Patania, che abita a Stefanaconi. Questi tre costituivano la Maggiore, mentre poi in carcere Pardea gli riferì che a capo di tutto c’era Emilio Bartolotta, detenuto per l’omicidio Lopreiato. Il collaboratore di giustizia ha anche aggiunto che a Vibo l’80 % dei soldi delle estorsioni per tutti i gruppi, Piscopisani, Patania, Mancuso e per le altre famiglie, venivano ritirate da un certo Nasone di San Gregorio d’Ippona, chiamato “Ruzzo”, genero di Rosario Fiarè e cugino di Michele Fiorillo, alias Zarrillo.

L’ agguato sfumato ai Patania

Moscato racconta in aula al pubblico ministero, che insieme a Francesco Fortuna e Rosario Fiorillo, un paio di giorni prima dell’agguato ad uno dei fratelli Patania, era andato di sera a provare il kalashnikov e la pistola che dovevano essere utilizzate per l’omicidio, in una campagna fuori Sant’Onofrio, vicino ad un ponticello. Ricorda che nei due giorni precedenti, lui e Rosario Fiorillo avevano dormito a Sant’Onofrio in un casolare, vicino le case popolari e in quel posto il cibo  veniva portato loro da Francesco Fortuna.  Riferisce che in quella casa dormivamo da soli e che era venuto a trovarli Mimmo Bonavota. Con lui si erano organizzati logisticamente per l’omicidio. La mattina dell’esecuzione, nel casolare si trovavano lo stesso Moscato e Rosario Fiorillo e che ad attenderli c’erano Basile Caparrotta e Domenico Cugliari “Micu i Mela”, che all’epoca aveva la sorveglianza ed era uscito da casa prima dell’orario consentito, ricordando anche che Caparrotta aveva una parrucca che doveva indossare poiché era l’autista del furgone rubato da utilizzare, “non ricordo se all’interno del casolare c’era anche Francesco Fortuna”.  In attesa su una scala aspettavamo il via al momento dell’uscita da casa di Patania, “non ricordo se Salvatore o Pino”. A Basile Caparrotta doveva arrivare uno squillo telefonico da parte dei Bonavota  con l’indicazione  di intervenire dopo che Patania fosse uscito da casa. Nel momento in cui sarebbe arrivato lo squillo Moscato, Caparrotta e Rosario Fiorillo, dovevano partire con il furgoncino, lungo la strada tra Stefanaconi e Sant’Onofrio, per colpire Patania. L’agguato sfumò, perché i Patania quel giorno non lasciarono la propria abitazione. Il furgoncino bianco era stato rubato da Moscato, come da lui stesso riferito,  a Lamezia Terme al Centro commerciale ed era, il furgoncino di Perri, lo stesso mezzo con il quale avrebbero dovuto compiere l’omicidio di Pantaleone Mancuso.

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