di Mimmo Famularo – Correva l’anno 2014. I rapporti tra i “Lo Bianco-Barba” e i “Pardea-Ranisi” iniziavano ad incrinarsi nel “buon ordine” di Vibo Valentia. Il sistema di distribuzione dei soldi di provenienza illecita (estorsioni e usura) iniziava a vacillare. Racconta il collaboratore di giustizia Michele Camillò nel verbale di interrogatorio dell’8 febbraio 2021: “La questione era stata sollevata da Bartolomeo Arena in relazione al fatto che all’interno della consorteria erano in pochi a ricevere proventi delle attività delittuose, rimanendo così esclusi numerosi sodali che contribuivano fattivamente al controllo del territorio”. Una questione non più rinviabile e da discutere in un’apposita riunione convocata dai maggiorenti del sodalizio criminale nella centralissima Villa Gagliardi di Vibo. “Bartolomeo Arena – specifica il pentito – si lamentava del fatto che il nostro gruppo manteneva l’ordine mentre i Lo Bianco-Barba ‘mangiavano’ e facevano affari con i Pugliese ‘Cassarola’ che erano nostri nemici”.
La riunione dei clan nel “polmone verde” di Vibo
La riunione dei clan nel “polmone verde” di Vibo
I particolari di questo vero e proprio summit in uno dei “polmoni verdi” di Vibo, lontano da cimici e occhi indiscreti è stato raccontato da Camillò nella parte finale dell’esame condotto del pm antimafia Antonio De Bernardo nell’aula bunker di Lamezia nell’ambito del maxi processo “Rinascita Scott”. A Villa Gagliardi, il collaboratore di giustizia, all’epoca dei fatti affiliato nel gruppo dei “Pardea-Ranisi” arrivò con il suo “capo-società” Totò Macrì e con Bartolomeo Arena, oggi collaboratore di giustizia, allora esponente di spicco del sodalizio e molto più di un “soldato” come lo stesso Camillò ha definito i “picciotti” vibonesi privi di doti di ‘ndrangheta di un certo livello. Un summit in due fasi. Alla prima parte parteciparono capi e gregari. “Oltre a me, Totò Macrì e Bartolomeo Arena, c’erano – racconta il collaboratore di giustizia – Vincenzo Barba, Carmelo D’Andrea con il figlio Giovanni Claudio, Antonio Lo Bianco detto Lorduni, Michele Manco, Domenico Prestia, Pasqualino Callipo, Vincenzo Lo Gatto, Nicola Lo Bianco, Carmelo Pardea, Carmelo Lo Bianco, fratello di Nino ‘Caprina’, Domenico Pardea, detto il ‘Longo’, il padre Giuseppe Pardea detto Pinuccio, Leoluca Lo Bianco, Nazzareno Franzè, detto ‘Poposcia’, Marco Pardea”. La riunione sarebbe durata un’oretta e all’interno di questo arco temporale ci sarebbe stato spazio per un summit ristretto al quale avrebbero preso parte i maggiorenti del gruppo appartati per discutere della questione in maniera riservata. “Chi c’era?” Chiede De Bernardo e Camillò risponde citando Bartolomeo Arena, Totò Macrì, Vincenzo Barba, Carmelo Lo Bianco, Nazzareno Franzè, Antonio Lo Bianco ‘Lorduni’, Carmelo D’Andrea, Nazzareno Franzè detto ‘Poposcia’. “Io ero a conoscenza dell’oggetto della discussione sia perché Arena ne parlava già da prima, sia perché lo stesso Arena ebbe a confermarmi che si era parlato di questo, aggiungendo che Vincenzo Barba aveva fatto in quel senso delle promesse affermando che presto si sarebbero sistemate le cose ed avrebbero ‘mangiato’ tutti”.
Le “nuove leve” e le pistole di Gighen
A proposito di distribuzione dei proventi di attività illeciti, Camillò ha spiegato il presunto meccanismo della spartizione tra sodali anche dopo la scissione dai “Lo Bianco-Barba”. “Antonio Francesco Pardea diceva che chi vuole mangiare deve contribuire al gruppo e chi non contribuisce si sta per i fatti suoi e basta. Mio nipote Domenico – ricorda ancora il pentito – mi disse invece che Pardea, Salvatore Morelli e Mommo Macrì si incontravano ogni mese per spartirsi i soldi delle estorsioni”. In pratica, i proventi finivano sempre nelle tasche dei “capi” mentre una parte andava a chi materialmente tra i sodali aveva “chiuso” l’attività illecita. Camillò ha anche parlato della disponibilità delle armi da parte della ‘ndrina di cui faceva parte. “Un giorno mi recai a prendere un caffè a casa di Bartolomeo Arena e questi mi mostrò tre o quattro pistole che aveva acquistato in un’unica soluzione da Domenico Pardea di Pizzo. Ricordo Che tra queste c’erano una calibro 6 e un’arma che noi dicevamo fosse simile a quella di Gighen e Lupin, ossia un revolver a canna lunga calibro 38. Arena, nel confermarmi che quell’arma era funzionante, mi rivelò che era stata ‘provata’ da mio nipote Domenico Camillò. Successivamente ne chiusi conferma a mio nipote il quale mi confermò che in effetti l’aveva utilizzata nei confronti di un’agenzia immobiliare di Pizzo riconducibile a Francesco Pugliese, detto ‘Willy’”.